Il Governo Meloni ha approvato il suo primo Documento di economia e finanza (Def), nel quale si prevede una crescita del Pil dell’1% quest’anno e dell’1,5% il prossimo (meglio delle stime del Fondo monetario internazionale che parlano di +0,7% nel 2023 e +0,8% nel 2024) e un deficit/Pil che passerà dal 4,5% del 2023 al 3% del 2025.



Proprio questa riduzione del disavanzo porta Gustavo PigaProfessore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, ad affermare che questo “non è il Def del Governo Meloni, ma di un Governo tecnico che risiede a Bruxelles: è il Def del Governo del Fiscal compact. Non credo che sia una coincidenza il fatto che viene programmato per il 2025 un deficit/Pil pari al 3%. Con una novità rispetto al passato: per il 2026 si prevede di arrivare addirittura al 2,5%”.



È così importante una previsione che si riferisce al 2026?

Le stime, anche se relative al 2026, sono importantissime, perché influenzano le aspettative degli operatori economici, che a questo punto sanno di vivere in un Paese in cui con una probabilità non irrilevante si passerà in cinque anni da un deficit/Pil del 5,6% (tale è il dato del 2022 al netto degli effetti dovuti al cambio di contabilizzazione dei bonus per le ristrutturazioni edilizie) a uno del 2,5%, con una manovra restrittiva di circa 70 miliardi di euro, che si potranno ricavare aumentando le tasse o riducendo la spesa pubblica tramite tagli lineari che nulla hanno a che vedere con la vera spending review, la riqualificazione della spesa pubblica.



Con questo Def, il Governo punta a ricavare risorse per un nuovo taglio del cuneo fiscale. Cosa ne pensa?

È falsa la ricostruzione che si legge sui giornali per cui portando il deficit/Pil dal 4,35% tendenziale al 4,5% per quest’anno il Governo compie una manovra espansiva di tre miliardi permettendo la riduzione del cuneo fiscale. Infatti, vuole ridurre il deficit/Pil al 4,5% dal 5,6% del 2022. Non c’è nulla di nuovo rispetto all’austerità degli Esecutivi precedenti. Per stessa ammissione del ministro Giorgetti, la riduzione del debito/Pil sembra essere diventato l’unico obiettivo, ma si continua a volerlo perseguire tramite la riduzione del numeratore e non l’aumento del denominatore.

A proposito di crescita, le stime contenute nel Def sono piuttosto distanti da quelle formulate martedì dal Fondo monetario internazionale. Come si spiega questa differenza?

C’è sempre stata la tendenza negli ultimi vent’anni, con tutti i Governi, a sovrastimare la crescita per cercare di avere qualche decimale in più utile a varare poi piccole manovre, come quella sul cuneo fiscale, per giustificare la propria esistenza. Credo sia importante sottolineare una cosa a proposito delle stime del Fondo monetario internazionale.

Quale?

Il Fmi ci indica come il malato di tutto il mondo occidentale. Prendendo come riferimento il periodo 2020-2023, infatti, si stima una crescita dell’8,6% a livello globale, del 6% per gli Usa, del 3,1% per l’Eurozona, del 2% per l’Italia, che continua a perdere, ormai dal 2000 senza soluzione di continuità, peso all’interno dell’Europa. Ricordiamoci che se all’inizio del millennio il nostro Paese rappresentava il 18% del Pil dell’Eurozona, ora è sceso ormai al 12%. Devo dire che di fatto sono state tradite le aspettative che c’erano su questo Governo, che avrebbe potuto utilizzare il periodo di luna di miele per mettere in campo le politiche più coraggiose per riformare un Paese. Dalle elezioni dello scorso anno era emersa per l’ennesima volta da parte dei cittadini la richiesta di un cambio di passo che non si materializzerà e penso che anche nella prossima legislatura troveremo un Esecutivo che attuerà le politiche che l’Europa chiede senza capire che questo significa la fine non solo dell’Italia, ma anche del progetto europeo.

Lei sostiene che il Fmi indichi l’Italia come il “malato” occidentale. Eppure, guardando le previsioni, la Germania sembra messa peggio: con un Pil a +1,8% nel 2022, a -0,1% nel 2023 e a +1,1% nel 2024…

C’è una differenza importante tra i due Paesi. Se guardiamo agli ultimi vent’anni, comprendiamo bene che quella della Germania è una difficoltà momentanea, come una febbre: ci sono tutte le precondizioni, dalla qualità della Pa alla possibilità di effettuare investimenti pubblici senza sottostare al Fiscal compact, per riprendersi molto più rapidamente dell’Italia che non ha soltanto una febbre, ma una malattia di lungo periodo. Devo dire che siamo messi talmente tanto male rispetto alla Germania che occorre prendere atto di due fenomeni per certi aspetti paradossali.

Quali?

Il primo è che in Germania i sindacati si sentono abbastanza forti da pretendere, per il tramite di scioperi importanti, l’aumento dei salari nominali, mentre in Italia hanno abbandonato qualsiasi battaglia di piazza a favore dei più deboli e assistono inermi in maniera incomprensibile a una situazione per cui un’inflazione cresciuta di quasi il 15% in due anni sta erodendo il potere d’acquisto di salari rimasti praticamente invariati a livello nominale. Inoltre, ci troviamo nella situazione paradossale di dover ringraziare i politici tedeschi per aver bloccato il tentato colpo di Stato della Commissione europea sulla riforma del Patto di stabilità che ci avrebbe danneggiato mostruosamente.

Ora, però, la Germania ha avanzato la proposta di fare in modo che i Paesi più indebitati riducano il rapporto debito/Pil di almeno un punto l’anno…

È una proposta che può affossare definitivamente quella della Commissione europea e che si presenta come meno austera e discriminatoria, anche perché la richiesta, piuttosto chiara e trasparente, può essere facilmente soddisfatta dall’Italia, che già in questo Def punta a passare da un debito/Pil del 144,4% nel 2022 a uno del 140,4% nel 2026, quasi un punto l’anno.

Questo Def, di fatto, appoggia la proposta di tedesca sulla riforma del Patto di stabilità?

Sì, siamo arrivati al paradosso che è meglio obbedire alla Germania che alla Commissione europea. Se Macron ritiene che gli europei non debbano essere vassalli degli Stati Uniti, in Italia dovremmo arrivare a dire che non dovremmo essere vassalli della Germania, ma che il nostro Paese dovrebbe essere artefice principale del proprio futuro, aiutando così quello dell’Europa.

Un’ultima cosa. Per cercare di raggiungere la crescita stimata sarà importante spingere l’acceleratore sul Pnrr

Come sappiamo, tra le condizioni del Pnrr è prevista anche quella di un percorso di rientro del deficit. Di fatto, la riduzione del deficit/Pil al 3% è pre-condizione necessaria per ricevere le risorse del Pnrr. Questo perché in Europa governa il Fiscal compact che è anche all’interno del Next Generation Eu. Non c’è nulla di quel che concerne il contratto sociale con la collettività chiamato politica fiscale nel nostro Paese che non sia legato al Fiscal compact e ai suoi effetti.

(Lorenzo Torrisi)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI