Che ne vogliamo fare della magistratura nei prossimi anni? A continuare così si vede che non regge. Ormai è chiaro. La società della comunicazione senza filtri, dell’accesso ai social senza limiti non lascia più tanto tempo. La voglia di dire quello che si pensa, unita alla “memoria” elefantiaca del web, che rigurgita post e idee ad anni di stanza, fa fatica ad accettare che poi, chi si esprime in modo schierato, possa essere colui che giudica chi avversa. Non che sia impossibile, sia chiaro, ma anche il più equilibrato dei magistrati nell’esercizio del proprio dovere fa fatica a tirarsi via dal suo groppone il pregiudizio che le sue avversioni politiche non entrino nel giudizio che dovrà dare su chi deve giudicare o indagare.
Accade così che due diversi magistrati debbono trovarsi a giudicare o indagare su esponenti di partiti politici che mal si conciliano con le esternazioni social che hanno fatto sul web. Tommaso Miele giudicherà Marcello Degni, Paola Ranieri dovrà pronunciarsi sul deputato FdI Emanuele Pozzolo. Sia chiaro, la professionalità è l’indipendenza non si discutono, ma nessuno pensa in cuor suo che non resti un alone sul retropensiero di chi deve giudicare.
Diceva Calamandrei, nel suo capolavoro del 1935 Elogio dei giudici scritto da un avvocato, che i giudici prima decidono e poi motivano. E raccontava di un valente magistrato che gli diede torto in una vertenza su di un cavallo mordace. Calamandrei aveva la certezza di vincere. Quel cavallo, benché mordace, era stato per molto tempo, troppo, a servizio di chi lo aveva acquistato. E dopo tanto tempo non se ne poteva rivendicare l’acquisto viziato perché il tempo aveva fatto decadere il diritto. Ma quel valente giudice gli diede torto. Dopo anni, alla festa del pensionamento del magistrato, Calamandrei chiese timidamente se ricordasse il caso ed il ragionamento di diritto che aveva sostenuto per dargli torto, e il giudice rispose che no, non ricordava il caso, ma se era un cavallo mordace di sicuro aveva dato torto al venditore perché da piccolo un cavallo lo aveva morso. Calamandrei sconsolato accettò la lezione, la vita, le esperienze, le opinioni profonde che, anche quando non lo pensiamo, ci condizionano. Figurarsi se poi ce ne facciamo portatori, promotori e diffusori. E se anche così non fosse, se pure avessimo la forza di valutare la vita coi fatti e la logica, e col diritto, chi mai non sarebbe colto dal dubbio che ci possa essere un pregiudizio?
Perciò delle due l’una. O si esercita una continenza espressiva assoluta e monacale, parlando con atti e sentenze, o si rischia di vedersi tirati per la giacca finché a qualcuno verrà in mente che, se proprio un giudice deve avere un’opinione, almeno che si candidi e venga eletto. Come nei benamati Usa.
Poiché la deriva appare incontenibile, la dicotomia tra il diritto di cittadino ad esprimersi e commentare ed il ruolo che si svolge come magistrato diventerà nel tempo sempre più intollerabile. Con l’aggravante che la copertura del nemico Silvio Berlusconi, da usare come totem contro cui difendersi e resistere, resistere, resistere, ormai non c’è più. E questo anche avrà un peso, perché manca il super-nemico contro cui schierarsi a cui attribuire la “colpa” di essersi dovuti esporre per fermare quel male assoluto.
Piano piano, lentamente, questa dicotomia esploderà e a quel punto, se le cose non verranno messe a posto, ci penserà qualcuno. L’aggravante è che un pezzo di quel mondo pensa che non sia un problema e di fronte alle critiche risponde con grande sicurezza “non c’è pane? Mangino brioches”. Ecco, le brioches stanno finendo. E di pane giusto, in giro, ce ne sta poco.
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