Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? Da 33 anni, il delitto di via Poma è un giallo in cui si insinuano misteri su misteri, così fitto da sembrare senza via d’uscita. La famiglia non ha mai smesso di cercare la verità e la speranza di arrivare all’assassino della 20enne, trovata senza vita negli uffici dell’Aiag il 7 agosto 1990, nel corso del tempo ha avuto linfa nell’ipotesi di scovare tracce decisive tra vecchie e nuove piste, al netto di depistaggi che hanno reso l’inchiesta una delle più difficili e articolate della cronaca nera italiana.



L’omicidio di Simonetta Cesaroni ancora oggi non ha un colpevole. Un buco nell’acqua le indagini sui principali sospettati dell’epoca, assolto in via definitiva l’allora fidanzato della vittima, Raniero Busco, a conferma della sentenza di appello dopo una condanna in primo grado a 24 anni di carcere. Ancora oggi non si sa chi è il killer entrato in azione nel pomeriggio di quel giorno rovente dell’estate romana tra le mura del palazzo in cui si trovava il posto di lavoro di Simonetta Cesaroni, segretaria per la rete di alberghi della gioventù che di lì a poco avrebbe dovuto godersi un periodo di vacanza. Il mistero che avvolge la morte di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 colpi forse inferti con un tagliacarte, è denso di interrogativi e di pagine dai riflessi mai del tutto chiariti. Come quella del suicidio di uno dei soggetti inizialmente indagati, il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore, avvenuto nel 2010 a ridosso dell’appuntamento in aula che lo avrebbe visto testimoniare al processo a carico di Busco. Le ultime parole di Vanacore in un biglietto: ”20 anni di sofferenza e sospetti portano al suicidio”.



Simonetta Cesaroni, le tappe del giallo: la vicenda giudiziaria sul delitto di via Poma

Il corpo di Simonetta Cesaroni fu trovato la notte del 7 agosto 1990 dopo l’insistenza della famiglia e in particolare della sorella, preoccupata per il mancato ritorno a casa della 20enne. Furono rilevate 29 ferite di arma da taglio probabilmente inferte con un tagliacarte, la giovane riversa a terra in posizione supina, gran parte dei suoi indumenti spariti dalla scena del crimine. Questa la ricostruzione delle condizioni del cadavere di Simonetta Cesaroni al momento del ritrovamento, cristallizzata nella sentenza di Cassazione che assolse definitivamente Raniero Busco: “Il corpo era supino con il capo riverso, le braccia e le gambe erano divaricate; indossava solo il reggiseno abbassato sui capezzoli e dei calzini bianchi. Sul ventre era appoggiato di traverso il corpetto che la giovane abitualmente portava sopra il reggiseno: il capo non era imbrattato di sangue (al contrario del reggiseno), circostanza da cui si deduceva che esso non fosse indossato dalla vittima al momento dell’azione omicidiaria e fosse stato appoggiato sul corpo successivamente. In un angolo della stanza erano allineate le scarpe da tennis slacciate“. La porta dell’appartamento in cui Simonetta Cesaroni fu rinvenuta senza vita risultò “chiusa a chiave, verosimilmente con le chiavi in possesso della vittima – sottolinearono i giudici – che erano state asportate, insieme agli altri vestiti della Cesaroni, ad altri suoi effetti personali e all’arma del delitto (probabilmente un tagliacarte): tutti oggetti mai più ritrovati. L’ingresso dell’assassino nell’appartamento era avvenuto senza forzatura della porta“. I locali, secondo quanto emerso in sede investigativa, erano stati sottoposti a una attività di ripulitura “e ordinati dopo il delitto“: una evidenza supportata, in particolare, dalla quantità di sangue “rinvenuto presso il corpo” ritenuta “grandemente inferiore” a quello presumibilmente fuoriuscita durante e dopo l’omicidio. “Tracce ematiche erano state rinvenute anche sulla porta di ingresso della stanza e sulla tastiera del telefono“.



Il 10 agosto 1990, fu fermato il portiere dello stabile Pietrino Vanacore, poi scarcerato il 30 agosto seguente. Nel novembre successivo, ricostruisce Ansa, fu chiesta l’archiviazione della posizione di un’altra persona, Salvatore Volponi, datore di lavoro della vittima. Istanza che il gip avrebbe accolto nell’aprile 1991, archiviando le posizioni di Vanacore e di altre cinque persone. Il fascicolo rimase aperto contro ignoti e un anno più tardi un altro nome fece irruzione nelle cronache: Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle residente abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto avrebbe ospitato Vanacore. Il giovane fu chiamato in causa dall’austriaco Roland Voller. Nel giugno 1993 il proscioglimento di Valle per non aver commesso il fatto. Insieme a Vanacore, nel 1995 uscì definitivamente di scena quando la Cassazione confermò la decisione della Corte d’appello di non rinviarli a giudizio. Nel 2007, l’iscrizione dell’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni nel registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio volontario. Raniero Busco si disse da subito innocente, sostenendo con forza la sua estraneità al delitto per tutto il processo che ne sarebbe scaturito. Il dibattimento a carico di Busco iniziò nel febbraio 2010, un mese prima del suicidio di Vanacore. Il primo grado a carico di Busco si concluse con una condanna a 24 anni di reclusione. Nel 2012, una nuova perizia sgretolò l’impianto dell’accusa evidenziando che le tracce biologiche rilevate sul corpetto della vittima fossero non solo di Busco, ma anche di altri soggetti non identificati. Nessuna certezza, secondo i periti, sulla traccia di un morso sul seno della giovane Simonetta Cesaroni. Il processo d’appello si chiuse con l’assoluzione di Busco “per non aver commesso il fatto”. La Corte di Cassazione, respingendo il ricorso della Procura Generale di Roma contro la sentenza di secondo grado, avrebbe confermato l’assoluzione rendendola definitiva.