33 anni dopo l’omicidio di Simonetta Cesaroni, l’assassino è ancora un’ombra senza volto e senza nome. Lungo oltre tre decenni, diverse piste e sospetti si sono avvicendati nelle indagini senza però portare alla soluzione del delitto di via Poma: chi ha ucciso Simonetta Cesaroni non è mai stato assicurato alla giustizia, ma la speranza di arrivare all’identità del killer resiste al tempo anche grazie alla linfa che alcuni elementi, ritenuti inediti, avrebbero iniettato nel perimetro della recente riapertura dell’inchiesta.



Era il 7 agosto 1990 quando la giovane Simonetta Cesaroni, 21 anni da compiere il 5 novembre, fu brutalmente uccisa nei locali degli uffici romani dell’Aiag (Associazione italiana alberghi della gioventù) in cui lavorava come segretaria contabile. 29 colpi in diverse parti del corpo, inferti probabilmente con un tagliacarte, imposero un’atroce fine alla sua esistenza aprendo a un giallo tra i più intricati e complessi della cronaca italiana. Nel 2011, l’ex fidanzato Raniero Busco – legato sentimentalmente alla vittima all’epoca dei fatti – fu condannato a 24 anni di reclusione in primo grado perché ritenuto responsabile dell’omicidio. Un verdetto ribaltato nel 2012 in appello, con una sentenza di assoluzione confermata in Cassazione nel 2014. Nel corso del tempo, almeno tre le persone finite sotto la lente investigativa: oltre a Busco, finirono nel cono dei sospetti, poi riconosciuti estranei al delitto, il portiere dello stabile Pietrino Vanacore, morto suicida nel marzo 2010 a pochi giorni dalla deposizione come testimone nel primo grado del processo a carico di Busco, e Federico Valle, nipote dell’architetto che allora abitava proprio lì.



Delitto via Poma: l’assassino di Simonetta Cesaroni gravitava nello stabile dove fu uccisa?

Nonostante il tempo trascorso, l’ipotesi che l’assassino di Simonetta Cesaroni possa essere qualcuno che gravitava nello stabile teatro del delitto non ha mai abbandonato il tavolo delle indagini. Centrale nella nuova inchiesta sul cold case sarebbero alcuni elementi tornati in testa all’attenzione investigativa per essere sottoposti ad approfondimenti che, all’epoca, non sarebbero stati svolti. Stando alle recenti evoluzioni, un testimone, mai ascoltato in passato, sosterebbe che il mistero si sarebbe potuto risolvere già allora con indagini più accurate. A parlare, affermando che se fosse stato interrogato 33 anni fa oggi, forse, non si parlerebbe di caso irrisolto, è stato Giuseppe Macinati, figlio di Mario Macinati, factotum dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno presidente regionale degli Ostelli della gioventù all’epoca in cui Simonetta Cesaroni lavorava come presso la sede di via Poma.



Il pomeriggio in cui Simonetta Cesaroni fu uccisa, quando ancora non si sapeva dell’omicidio, un uomo telefonò a casa mia dal luogo del delitto“, avrebbe dichiarato l’uomo parlando di “due telefonate” misteriose in cui qualcuno avrebbe cercato Caracciolo proprio a casa sua “perché, quando veniva nella sua casa di campagna, l’avvocato voleva rilassarsi. Per questo non aveva il telefono. Per i casi di urgenze, lasciava il numero di casa nostra. Mio padre lavorava per lui”. A rispondere alle chiamate dell’interlocutore rimasto ignoto, a suo dire un uomo, sarebbe stata la madre di Macinati. L’orario delle telefonate sarebbe antecedente a quello, ufficialmente noto, in cui si inquadra la scoperta del delitto con il ritrovamento del cadavere di Simonetta Cesaroni: “Ricordo nel pomeriggio, intorno alle 17:30 – ha aggiunto il testimone, riporta TgCom24, e poi la seconda non più tardi delle 20:30, perché papà tornava a casa intorno alle 20:45. Sicuro hanno chiamato prima che trovassero il corpo. Noi in quel momento non sapevamo nulla di quello che era accaduto a Roma. Solo il giorno dopo ho scoperto dai telegiornali che era stata uccisa una ragazza agli Ostelli. Ho pensato: ‘Allora era per questo che chiamavano’ (…). Se me lo avessero chiesto prima, nell’imminenza dei fatti, l’assassino non sarebbe libero“.

La testimonianza di Macinati sposterebbe le lancette della storia andando a modificare la ricostruzione dell’orario del delitto. Un racconto che potrebbe aprire all’orizzonte di nuove piste da esplorare o a sgretolare alibi apparsi lacunosi o mai verificati fino in fondo. Pochi mesi fa, una nuova ipotesi si è ritagliata una strada nel giallo, avanzata dal giornalista e scrittore Paolo Cagnan che non escluderebbe un legame tra il delitto di via Poma e l’azione del serial killer di Bolzano, Marco Bergamo. La speranza di trovare l’assassino di Simonetta Cesaroni, nonostante l’ombra di piste sbagliate e depistaggi, non si è mai spenta. C’è un altro fronte che alimenterebbe la possibilità di stringere il cerchio intorno al killer di via Poma: il criminologo Franco Posa, che sta rianalizzando i reperti del caso, ha sottolineato a TgCom24 che “c’è stata una quantità di coltellate che va oltre a quelle necessarie per uccidere. C’è una situazione di overkilling. Stiamo mappando le ferite, la mappatura parla molto”. Sul corpo della vittima sarebbero presenti “segni dei quali non si trova traccia nelle perizie fatte nel corso degli anni” e localizzati in parti del corpo quali “collo e una mano, dove vi era peluria che non è stata studiata e valutata“. Secondo il criminologo, tale materiale pilifero non repertato all’epoca risulterebbe evidente negli ingrandimenti delle immagini del cadavere e potrebbe essere una traccia dell’assassino: “Dagli ingrandimenti fatti con tecniche innovative, le evidenze che sono saltate fuori sono tante. Lesioni mai descritte con precisione, materiale biologico come questa peluria depositata su una mano e un’impronta sul collo che stiamo studiando. Grazie a una tecnica che permette di ingrandire questa lesione, possiamo misurarla e confrontarla con lo strumento che probabilmente è stato usato per stringere“.