L’APPELLO DELL’ARCIVESCOVO DELPINI SULLA SITUAZIONE DI MILANO
Violenza, degrado, cronaca terribile ma anche speranza, futuro, rinascita: di questo e di molto altro ha parlato a “La Repubblica” l’arcivescovo di Milano Mons. Mario Delpini, una chiacchierata su tutti i temi della città cuore pulsante di un’Italia in difficoltà per nulla uscita dalla morsa della crisi economico-sociale. «Milano dovrebbe essere diversa: abitare in città dovrebbe significare far parte di una comunità e ogni solitudine dovrebbe trovare rimedio nell’attenzione reciproca e nell’operosa solidarietà», sottolinea l’arcivescovo indicando i punti “deboli” della metropoli lombarda. «L’impressione è che la città sia diventata una nozione un po’ inafferrabile. Ci sono luoghi, che frequento, dove la gente vive tranquilla e altri luoghi che sono pericolosi», ammette Delpini non facendo però di ogni erba un fascio.
Secondo il prelato, occorre infatti riconoscere il servizio delle forze dell’ordine e delle varie associazioni di quartiere, nonché le realtà del volontariato perché «assicurano in modo diverso una convivenza pacifica e civile»; il problema, aggiunge l’arcivescovo di Milano, è che insieme a questi punti positivi «crescono serbatoi di risentimento e rabbia, di confusione interiore che scatenano la violenza». Non si espone del tutto dando patentini generalizzati poco utili all’analisi, ma Delpini riflette sulla violenza sconsiderata che negli ultimi anni post-pandemia è esplosa anche nella normalmente “calma” Milano: «La città è differenziata al suo interno e darne l’immagine complessiva di un luogo dove ci si sente insicuri fa un torto ai cittadini che costruiscono buoni rapporti e alle forze dell’ordine che assicurano serenità in tante situazioni. Forse per unificare luoghi che talvolta sono molto diversi sarebbe necessaria una speranza condivisa, una fierezza di essere milanesi che renda tutti i cittadini protagonisti di un convivere più fiducioso e tranquillizzante per tutti, specie per i più fragili: dagli anziani alle persone sole agli stranieri».
MORTE DIANA, MONS. DELPINI “ABBATTERE SBARRE INDIFFERENZA”
L’arcivescovo milanese spiega alla città come la Chiesa intende essere un volto di prossimità in grado di rappresentare e testimoniane speranza, prima di tutto: «La strada percorsa dalla Chiesa è abitare tutti i quartieri, avere una presenza capillare nel territorio, offrendo una casa accogliente o luoghi dove praticare lo sport». Per Delpini però occorre un dialogo costante tra la Chiesa e le altre realtà sociali cittadine: «soprattutto vanno chiamate in causa le famiglie. Il disagio può dipendere dal degrado ambientale, ma la sua radice è nella debolezza dei rapporti familiari: l’impegno dei genitori, gli orari di lavoro, sottraggono spesso gli adulti alla loro presenza educativa e una certa superficialità nelle relazioni fa sì che molti ragazzi si sentano persi». L’appello alla politica è netto e richiama quanto già Papa Francesco e il Presidente della CEI Zuppi hanno ribadito negli scorsi giorni: «ma c’è una tristezza abbastanza generalizzata perché manca la speranza. Il pensiero tipico della civiltà occidentale è che siamo vivi, ma destinati a morire. Di fronte a questo c’è la speranza cristiana. E la via d’uscita da questa situazione, in cui la solitudine sembra più rassicurante della solidarietà, è il sentirsi provocati al bene da fare, sentire la responsabilità di rendere migliore il mondo. Detto un po’ schematicamente, è felice chi aiuta gli altri ad essere felici».
Secondo Mons. Delpini però, non basta la volontà del singolo: «questo obiettivo domanda una parola alla politica. Serve uno sforzo condiviso che orienti le scelte nella gestione della cosa pubblica al servizio del bene comune». Come serve uno sforzo comune per provare ad uscire dalle “sbarre” indicate dall’arcivescovo di Milano in merito alla drammatica vicenda della morte di Diana Pifferi, la bimba morta di stenti a 18 mesi perché abbandonata dalla madre in casa per 6 giorni: Delpini aveva mandato un messaggio alla parrocchia per i funerali della bimba e torna a parlarne nella sua intervista a “Rep”, «Sono convinto che il male si insinua nella vita ordinaria delle persone e genera una confusione per cui si perde il senso della realtà. Passa l’idea che il capriccio sia un diritto, che gli altri possano essere un fastidio. E questo è tipico di un contesto in cui si dispera della verità, in cui si pensa che tutto sia possibile, dove si esclude Dio, un riferimento trascendente che ci guida e che ci aiuta a distinguere il bene dal male». Secondo il prelato milanese, il tema della convivenza e dell’indifferenza è centrale nel caso di Diana e di tante altre storie ancora “sommerse”: «Chi abita un territorio deve scegliere se il rapporto con gli altri dev’essere sostanzialmente la ricerca di una solitudine per difendersi – e quindi non soltanto le porte blindate, le inferriate alle finestre, ma anche sbarre fatte di indifferenza e di timore – o scegliere una strada diversa: costruire quei rapporti di buon vicinato che convincono che la condivisione è meglio della solitudine e dell’egoismo, che la solidarietà è più promettente del distanziamento e dell’indifferenza, che vale la pena di abbattere quelle sbarre non visibili che ci separano dagli altri».