Proviamo a immaginare: Giorgia Meloni perde la sua battaglia sul premierato per una decisione della Corte costituzionale, viene abbandonata dai suoi partner di maggioranza ed è costretta a dimettersi da un ribaltone di palazzo. E il giorno dopo prova a vendicarsi pubblicando su un grande quotidiano un vibrante appello a castigare la Consulta, accusandola apertamente di aver tradito il suo ruolo di massima magistratura istituzionale e di essersi messa al servizio politico del presidente della Repubblica. Par già di udire il coro assordante di riprovazioni inorridite, di allarmi “democratici” in difesa della “Costituzione più bella del mondo”, di fatwe definitive contro la “destra fascista”, eccetera.



In Italia è fantapolitica: almeno per ora. Negli Usa, invece, è diventata una realtà in grado di superare ogni fantasia. Il Presidente (uscente) Joe Biden ha scritto un op-ed sul Washington Post preannunciando un progetto di riforma a tamburo battente per la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. “Scotus” sarebbe rea – nella sostanza – di non aver azzoppato Donald Trump nella corsa per la Casa Bianca, non rendendo tassativo prima del voto di novembre un giudizio sul suo presunto coinvolgimento nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. E alla Corte viene imputato – con tutta evidenza – di aver distorto le pronunce su Trump perché condizionata dalla presenza fra i nove justice di tre nominati dall’ex Presidente repubblicano. Una ragione sufficiente per impartire una lezione severa a quei giudici “antidemocratici”, sforbiciando dall’oggi al domani l’indipendenza di un pilastro fondante della democrazia statunitense (la Corte Suprema è stata istituita nel 1789 da George Washington).



La vicenda appare più grottesca che inquietante, soprattutto all’indomani dell’esclusione di Biden alla corsa per le presidenziali. Che è stata decisa non dalla Corte, ma, quasi in privato, da quattro “padrini” del partito democratico: i coniugi Clinton, l’ex Speaker della Camera Nancy Pelosi e Barack Obama, ex capo di Biden alla Casa Bianca. Ed è stata decretata in fretta e furia dopo la pesante sconfitta televisiva accusata da Biden contro Trump. Ora però, pur di spingere la vice di Biden (imposta come candidata di riserva gettando alle ortiche le primarie “dem” e la prossima convention di Chicago) tutto appare evidentemente utile: anche una “strategia della tensione” politico-mediatica che tenga accesi i sospetti “neri” su Trump (intanto quasi assassinato – dopo il duello televisivo – in una vicenda dai contorni sempre più torbidi). E poco importa se è il capo uscente dell’esecutivo – invelenito da una sconfitta personale e politica e forse non nel pieno delle sue facoltà – a demolire intenzionalmente la fiducia dei suoi concittadini nelle istituzioni. E non è il candidato Trump, comunque, ma il Presidente “dem” in carica a voler abbattere i muri fra i poteri dello Stato, consolidati della liberaldemocrazia contemporanea.



Lo stesso Trump è nel frattempo reduce da un processo-gogna (se non addirittura farsa) intentato a Manhattan da un district attorney elettivo, noto per le sue posizioni politiche vicine all’ala radicale dei “dem”. A rendere più tragicomiche le pubbliche isterie “dem” nello storico hub a New York non manca il pressing tentato di alcuni media liberal per far dimettere in anticipo dalla Corte Suprema Sonia Sotomayor, cresciuta nel Bronx da genitori portoricani e designata da Obama. L’obiettivo sarebbe far nominare in extremis una justice da parte di Biden: se non per ribilanciare gli equilibri politici nella Corte, almeno per rioccupare a più lungo termine una delle nove poltrone, evitando altri possibili allargamenti dell’ala conservatrice a opera di un Trump-2. Sotomayor – 70enne – è rimasta tuttavia sorda ai richiami: come del resto fece Ruth Bader-Ginsborg, altra giudice-icona dell’America liberal. Bader-Ginsborg, molto anziana e malata, rifiutò sempre di rinunciare alla carica in “Scotus”, per legge a vita. Venne a mancare sul finire della presidenza Trump e consentì quindi ai repubblicani di designare la meno che cinquantenne Amy Coney-Barrett, conservatrice. Ed è questo, con tutta evidenza “l’incidente” che ora Biden vorrebbe sanare con un disegno di legge al Congresso: a cento giorni da un voto cui gli è stato impedito di partecipare dal suo stesso partito.

Questo è d’altronde il qui e ora della “democrazia in America”, che il francese Alexis de Tocqueville fece conoscere in Europa poco più di due secoli fa. Allora il Vecchio Continente era stato appena ricostruito dopo la bufera rivoluzionaria e napoleonica in un puzzle di monarchie assolute. Oggi invece se nel mosaico fra le Ventisette democrazie dell’Unione un capo di governo si azzarda ad allungare le mani sull’autonomia della Corte suprema viene subito processato e severamente punito dall’eurocrazia: è capitato ai leader di Polonia e Ungheria, cui Bruxelles ha congelato con procedura rapida e sommaria i fondi Recovery per sospetti cedimenti sullo “stato di diritto”. Chi si è invece potuto permettere un tentativo di mettere la museruola alla sua Alta Corte è stato il Premier israeliano Bibi Netanyahu, oggi reduce da un trionfale viaggio a Washington anche se sotto indagine da parte della Corte Internazionale Penale per sospetto genocidio a Gaza.

Questo annotato, perfino una testata di granitica fede dem come il New York Times ha subito cestinato il caso “Biden vs Scotus” come tentativo fallito in partenza (e forse insidioso per la stessa candidatura Harris). Resta alla fine più preoccupante quanto continua ad accadere in un’altra area storica dell'”Occidente democratico”, per opera di un altro “Presidente esecutivo”: quello francese Emmanuel Macron. Il quale – dopo una secca sconfitta riportata all’euro voto – ha condotto un’azione sistematica di destabilizzazione interna della democrazia politica a Parigi. E lui stesso ha affermato – alla fine con sollievo e compiacimento – che dopo il “chiarimento” da lui imposto con lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e le elezioni anticipate, “nessuno ha vinto”. Cioè: il nuovo Parlamento non è in grado di far emergere una maggioranza di governo (ciò che peraltro Macron al momento impedisce di verificare rinviando l’assegnazione dell’incarico di Premier).

Nel frattempo – complice una surreale “pausa olimpica” – Macron se n’è andato in vacanza. Il Paese resta nelle mani del Governo Attal: prima travolto dallo scioglimento dell’Assemblea, poi resuscitato all’indomani del voto, infine collocato nell’ambito ambiguo dell'”ordinaria amministrazione”. Tutto a discrezione dell’Uomo Solo dell’Eliseo: il quale lascia volentieri che i media prevedano uno stallo lungo ancora settimane o mesi. In questo arco di tempo sarebbe naturalmente Macron a governare il Paese come il Re Sole. A gestire in particolare in prima persona la procedura d’infrazione per alto deficit contro la Francia a Bruxelles: dove proprio in queste settimane di monarchia/anarchia in Francia Macron è stato decisivo nella conferma di Ursula von der Leyen.

E proprio dall’Ue potrebbe tornare ora a Parigi Thierry Breton, finora commissario all’Industria nominato da Macron nel 2019. Sarebbe lui il “Draghi francese”: incaricato di formare un Governo tecnico che di volta in volta dovrebbe cercarsi maggioranze variabili su singoli progetti di legge. Ma a “regnare” fino al 2027, rimarrebbe “Jupiter” Macron.

È vero che la democrazia in Occidente è in pericolo: ma anche – sempre di più – per responsabilità dei Biden e dei Macron.

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