Non c’è solo il debito pubblico. A pesare sulle sorti future del Bel Paese c’è pure il debito demografico che ci accompagna ormai da lungo tempo. Le due questioni, poi, sono intimamente connesse: per puntare al risanamento della finanza pubblica sarebbe necessario un forte aumento della popolazione in età lavorativa, nonché la crescita della produttività che dipende dal livello degli investimenti. Sono considerazioni lapalissiane, certo, ma di cui occorre tener conto per evitare di cadere nella trappola della propaganda più bieca.
I numeri innanzitutto. Dalla lettura del Documento di economia e finanza emerge in maniera drammatica la montagna che il Governo dovrà scalare nei prossimi anni. Finita la stagione dei tassi zero, l’Italia dovrà fare i conti con un costo del denaro più alto senza più contare sul sostegno degli acquisti della Bce. Anzi. Sale la richiesta di buona parte dei Paesi dell’area euro per accelerare il rimborso dei prestiti passati. In cifre, questa situazione ha costretto l’Esecutivo a prevedere per i prossimi anni un avanzo primario nell’ordine del 2%. Ovvero una parte del Pil se ne andrà nel rimborso degli interessi ai creditori internazionali. Nel 2024 è previsto che la spesa per interessi arrivi al 4,1% del Pil, pari a 1.398 euro per cittadino (neonati e suore di clausure comprese) per poi salire al 4,2% e al 4,5% nel 2025 e 2026. Più del doppio della media dei Paesi Ue (1,9%) o degli Stati Uniti (1,15%).
È questo il macigno che, al di là delle velleità e delle promesse elettorali, condiziona le scelte dei Governi. Oggi più di ieri, a fronte di una stagione di tassi in salita, cresce l’attenzione della speculazione internazionale per le sorti del debito di casa nostra: basta uno scostamento azzardato dei conti pubblici per far rovesciare la barca. O per imporci in extremis, cioè nelle condizioni negoziali peggiori, la firma del trattato del Mes. Un’emergenza tutt’altro che improbabile nel caso che nei prossimi anni il Pil italiano, nell’attesa di trovare un modo per far fruttare i capitali del Pnrr, torni a crescere meno del debito. Ma qui si innesca un secondo ancor più grave problema: il debito demografico. La depressione demografica italiana è così grave da erodere in modo inesorabile la sostenibilità del nostro debito pubblico.
Certo, è un problema che si trascina da lungo tempo. E non solo in Italia. Ma che da noi assume livelli paradossali. Com’è possibile che alti tassi di disoccupazione giovanile, specie al Sud, convivano con la mancanza denunciata dalla ministra Calderone di un milione di addetti nell’industria e nei servizi? Stavolta, come sempre, è meglio diffidare delle soluzioni semplici. Forse il taglio delle agevolazioni di Reddito di cittadinanza servirà a fare emergere una quota di fannulloni o, più facile, di finti part-time.
Certo, non è facile trovare una ricetta per rendere sostenibile il debito in un Paese che perde popolazione attiva mentre sale la percentuale dei pensionati. Una missione impossibile se nel frattempo l’occupazione femminile resta ai minimi nell’area Ocse e s’ingrossa l’esercito dei giovani che non studiano né lavorano. La depressione demografica del Paese è tale da erodere in modo inesorabile la sostenibilità del nostro debito pubblico. È un circuito vizioso, aggravato dall’assenza di risorse finanziarie che possano sostenere gli investimenti per aumentare la produttività del sistema. Al contrario, s’aggrava la fuga dei “cervelli”, cioè il frutto dell’istruzione italiana, che emigrano all’estero alla ricerca di condizioni di lavoro migliori. E nel frattempo, lungi dal praticare una politica che valorizzi le risorse pur preziosi degli stranieri (che serviranno a pagare le pensioni future), il tema dell’immigrazione si riduce alla politica dell’emergenza, senza prender atto che, volenti o nolenti, siamo di fronte a un fenomeno di lunga durata. Una sorta di invasione dai molti volti e dai mille problemi che merita di essere affrontata con una buona dose di pragmatismo.
Per prima cosa occorre evitare interventi una tantum buoni per avere un titolo sui giornali, ma non a indicare le priorità di lungo termine per problemi così complessi. Per incentivare e valorizzare le risorse dei giovani (e non solo) occorre spingere nella direzione di un aumento dei salari. Ma attenzione. È necessario che questo si inserisca in uno sforzo di sistema per aumentare la produttività. Il gap tra le buste paga italiane e degli altri Paesi avanzati non sta a indicare che, a parità di mansione, un impiegato o un operaio guadagnino di meno da noi rispetto alla Germania (a parità di potere d’acquisto). Semmai è la struttura dell’economia tedesca o francese che garantisce la presenza di posti di lavoro più adeguati alle esigenze di un capitalismo più avanzato e digitale.
Stipendi più alti per una base produttiva più avanzata sono il presupposto per offrire percorsi di vita all’altezza delle richieste dei giovani. Ivi compresa la possibilità di fare figli. In parallelo, e non in alternativa, occorre intervenire nella gestione dei flussi migratori, impostando una politica alla canadese, privilegiando l’arrivo dei migranti secondo le esigenze del mondo delle imprese.
Facile a dirsi, si può obiettare. Ma alternative virtuose non ce ne sono. Senza dimenticare che fa più notizia la carovana di profughi dal Sud del mondo che non i mille esempi virtuosi. Eppure, conti alla mano, il Nobel Paul Krugman ha collegato il miglioramento dell’economia americana rispetto alle previsioni alla ripresa del flusso migratorio negli States dai Paesi asiatici.
La lezione? Per pagare i debiti occorre lavorare. Ma se non ci sono persone in grado di fare, la macchina gira a vuoto. O non gira affatto.
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