Due notizie, per iniziare. Primo, anche Goldman Sachs è umana e a volte, come questa, sbaglia le previsioni. Secondo, la recessione è finita visto che il Pil Usa è cresciuto del 3,5% contro il 3,3% previsto dagli analisti. Evviva. La Casa Bianca e il Tesoro hanno subito salutato la notizia come «una pietra miliare».

Ma, siccome non sarei io se non dicessi le cose come stanno, spegnete subito gli entusiasmi: questo dato, infatti, assomiglia tremendamente a quelli diffusi dagli enti cinesi preposti alle rilevazioni, ovvero sono taroccati. Come è presto detto. Ciò che ci viene comunicato da Washington è tutto verissimo, peccato che questi risultati siano stati resi possibili dalle manovre di stimolo messe in atto dal governo: senza quelle, oggi staremo parlando di depressione in atto e Wall Street, invece di festeggiare, avrebbe la freccia rossa.

Se infatti il progresso del Pil ha superato le attese degli analisti, secondo i dati disaggregati forniti dal dipartimento del Commercio, questo recupero ha ricevuto una consistente spinta dai programmi di incentivi alla rottamazione di auto approntati dal governo: le spese su beni di consumo durevoli del settore manifatturiero – dove viene inserita l’auto – hanno messo a segno un tasso di crescita del 22,3% su base annua, il più forte dalla fine del 2001.

Un ulteriore contributo positivo è giunto dal mercato immobiliare, che sembra aver svoltato rispetto alla fase di contrazione nel corso dell’estate: le spese su progetti edilizi hanno segnato un aumento annuo del 23,4%, il maggiore dal 1986. Secondo le tabelle storiche è la prima volta dal 2005 che questa voce segna una variazione positiva: anche in questo caso, però, si sconta l’effetto di misure governative, in particolare un credito d’imposta da 8mila dollari a favore di chi acquistava la prima casa.

Questa misura si esaurirà a fine novembre ma il Congresso sta studiando una sua possibile proroga: fino a quando non si sa, visto che la Fed continua a mettere in giro denaro a costo zero in quantità industriale, stampando e stampando denaro dal nulla per dare la sensazione che l’economia sia ripartita e la crisi alle spalle.

Non è così e lo sapete bene anche voi. A confermare ciò che dico la notizia che GMAC Financial Services, il braccio finanziario della General Motors, starebbe chiedendo un terzo intervento di sostegno al Tesoro statunitense che ha già versato 12,5 miliardi di dollari alla società e ne è diventato azionista al 35%. La profonda crisi di GMAC rappresenta una conferma indiretta della attuale situazione del credito al consumo negli Stati Uniti d’America, un comparto di attività finanziarie un tempo floridissimo e che consentiva alle entità appositamente create da imprese industriali e banche di contribuire significativamente ai profitti delle rispettive case madri: in qualche caso, come in quello della emanazione finanziaria della General Electric, per importi che rappresentavano anche il 50% del totale.

Ora non più: capite quindi perché è importante disaggregare i dati de Pil e guardare voce per voce il perché di tanto ottimismo immotivato, ad esempio nel trainante settore auto. «Sembra proprio che ora l’economia stia in piedi con le proprie gambe ma la domanda da porsi è quando svanirà l’effetto magico degli stimoli governativi e cosa succederà dopo», si domandava ieri Chris Rupkey della Bank of Tokyo-Mitsubishi a New York. «Questa è la domanda da un milione di dollari che 16 milioni di disoccupati si stanno ponendo dal basso della posizione in cui sono scivolati non per colpa loro», concludeva.

 

Un altro economista di primo livello, John Silvia di Wells Fargo, utilizza addirittura il bisturi per sezionare quanto sta accadendo: «La domanda da porsi è una sola, ovvero per quanto questo tipo di programma di stimolo – che ha consentito ad esempio il buon dato immobiliare grazie alle iniezioni spaventose a Fannie Mae e Freddie Mac – sarà sostenibile per la Fed. Noi abbiamo fatto un calcolo che purgasse le manovre di stimolo e il risultato del Pil è 2,4% per il 2010».

 

In molti, poi, cominciano a dire chiaro e tondo che in Borsa abbiamo visto i massimi dell’anno e che stiamo per andare incontro a una contrazione del 10% almeno, stando a Cramer «dopo la salita ora la “v” sta mostrandoci la sua gamba in discesa, la crisi è tutt’altro che terminata. Prendete beneficio di quanto investito e mollate tutto», il suo consiglio dal sito di Cnbc.

 

E ieri la risposta alle preoccupazioni degli economisti è giunta indirettamente dal segretario al Tesoro, Tim Geithner, secondo cui «la Federal Reserve dovrebbe perdere l’autorità di salvare grandi società finanziare in crisi come Aig e Bear Sterns. La Fed – ha spiegato Geithner – dovrebbe mantenere la facoltà di agire come creditore di emergenza ma solo a società solvibili in tempi di grave crisi e con il consenso del Tesoro. Ogni società che si mette nelle condizioni di non poter sopravvivere senza aiuti straordinari da parte del governo deve affrontare le conseguenze di un fallimento», ha concluso Geithner.

 

Il quale, però, finge di non sapere che sull’orlo del fallimento, oggi come oggi, c’è mezzo paese che vive artificialmente con i soldi dei contribuenti finiti sul lastrico per la crisi: paradossi del capitalismo in salsa sovietica. Ad onor del vero, lo stesso Geithner ha ammesso poco dopo che «la disoccupazione resta elevata in modo inaccettabile. Per ogni persona che ha perso il lavoro, per ogni famiglia che perde la casa, per ogni piccola impresa che ha difficoltà di accesso al credito, la recessione resta viva e acuta». Come uscirne non è dato a sapere.

 

Chi invece viaggia come una locomotiva e punta a un ruolo di duopolio con gli Usa, ovviamente in condizione di superiorità, è la Cina: utili in crescita del 19% nel terzo trimestre, infatti, per la Industrial & Commercial Bank of China, primo dei quattro giganti statali del credito del Dragone. Prima banca al mondo per capitalizzazione in Borsa, ha visto il risultato netto di bilancio sospinto dall’aumento di entrate mentre espandeva la concessione di prestiti, affiancando i massicci interventi decisi da Pechino a sostegno dell’economia.

 

Sui primi nove mesi dell’anno Icbc ha concesso crediti per oltre 1.000 miliardi di yuan, quasi 100 miliardi di euro e le entrate derivanti da interessi e commissioni sono cresciute del 19%. Tra luglio e settembre il gruppo ha realizzato utili netti per 33,8 miliardi di yuan, 3,35 miliardi di euro, pari a 0,10 yuan per azione. Icbc ha riferito che a fine settembre l’ammontare complessivo del suo patrimonio di attività risultava aumentato a 11.700 miliardi di yuan, o 1.161 miliardi di euro.

 

Sempre ieri anche la Bank of China, terzo istituto di credito cinese, ha pubblicato i suoi risultati, l’utile netto è aumentato anche in questo caso del 19%, a 21,1 miliardi di yuan, o 2,09 miliardi di euro, mentre le entrate per interessi sono cresciute dell’8% a 40,8 miliardi di yuan. Per parte sua Bank of China ha effettuato prestiti per 1.400 miliardi di yuan nei primi nove mesi, mentre l’ammontare totale del suo patrimonio di attività è salito del 19,9% a 8.300 miliardi di yuan, 824 miliardi di euro.

 

Insomma, numeri che devono far paura ma che sostanzialmente lasciano invece tranquilla la dormiente amministrazione Usa: finché la Cina ha surplus comprerà il debito statunitense e i due giganti si manterranno in vita l’un l’altro, uno comprando il debito, l’altro assorbendo la messe di export sul suo mercato asfittico e goloso di beni a costi ridotti e garantendo una sottovalutazione dello yuan. Ecco, a mio avviso, come va letto il dato del Pil Usa.