Signori, la crisi – quella vera, che prescinde dai sali e scendi della Borsa – è servita. Dopo i segnali incoraggianti arrivati nelle scorse settimane dal fronte occupazionale, le notizie arrivate ieri dagli Usa sono infatti contrastanti.

Se le richieste iniziali di sussidi di disoccupazione sono cresciute più delle previsioni degli analisti nei sette giorni appena conclusi, il numero complessivo si è attestato in ribasso: secondo quanto riportato dal dipartimento del Lavoro americano, nella settimana conclusasi il 5 dicembre, il numero di richieste è cresciuto di 17mila unità a 474mila, mentre gli analisti aspettavano un aumento di 8mila, e i numeri della settimana precedente sono rimasti invariati a 457mila unità.



Il dato, che arriva a una settimana di distanza dal rapporto del dipartimento del Lavoro (in novembre il tasso di disoccupazione è calato al 10% dal 10,2% precedente), si mantiene comunque a livelli alti ed è una dimostrazione del fatto che il settore dell’occupazione rimane il punto debole della ripresa economica: chissà che alla Fed, invece di continuare la caccia alle streghe contro i fondi speculativi, lo capiscano prima o poi.



Non va meglio, anzi, in Europa. «Le condizioni nel mercato del lavoro hanno seguitato a deteriorarsi. Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro è rimasto stabile al 9,8% in ottobre rispetto al mese precedente. Si tratta del valore più elevato dal dicembre del 1998. Nel secondo trimestre del 2009 la crescita dell’occupazione ha mostrato una flessione dello 0,5% sul periodo precedente».

È quanto si legge nel bollettino di dicembre della Banca Centrale Europea, secondo cui «in prospettiva, a seguito della netta contrazione del prodotto registrata alla fine del 2008 e all’inizio del 2009 unitamente agli attuali bassi livelli di utilizzo della capacità produttiva potrebbe risultare più difficile per le imprese seguitare a mantenere invariati i livelli di occupazione e ci si deve attendere un’ulteriore soppressione di posizioni lavorative permanenti. Nei prossimi mesi è probabile pertanto un’ulteriore crescita della disoccupazione nell’area dell’euro, ancorché a un ritmo inferiore a quello osservato nel corso dell’anno».



Ma la questione del lavoro, centrale per la tenuta stesso della società, non è paradossalmente quella prioritaria: siamo, infatti, a un passo dalla disgregazione dell’Ue. La Grecia è in default e l’Irlanda sta per raggiungerla, la Germania nel primo trimestre del prossimo anno dovrà fare i conti con le svalutazioni delle sue banche e i costi per salvarle faranno schizzare il debito pubblico a livelli inaccettabili.

L’ombrello dell’euro, a quel punto, sarà troppo piccolo e qualcuno si bagnerà. Non tanto per la gravità della situazione – devastante, inutile negarlo – quanto per il fatto che chi sarebbe preposto a trovare ricette per uscire dal pantano non sembra nemmeno accorgersi di quanto in realtà stia accadendo.

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Tutti in ordine sparso, qualcuno getta acqua sul fuoco, qualcuno benzina, qualcuno ha il coraggio del realismo: nessuno, però, sa cosa fare. L’appena riconfermato presidente dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker, ad esempio, esclude «categoricamente una bancarotta dello Stato della Grecia», nonostante «il minimo che si possa dire è che la situazione di bilancio è tesa». Tesa, un eufemismo che mette i brividi più che far sorridere visto che quest’anno il disavanzo pubblico è atteso quasi al 13% del Pil, mentre nel 2010 il debito dovrebbe superare il 120% del Pil.

 

Una deriva che l’altro giorno ha visto il premier lanciare una sorta di appello all’orgoglio nazionale, avvertendo che il dissesto dei conti mette a repentaglio «la sovranità della Grecia». Ieri il premier ellenico Georges Papandreou è tornato sulla questione lanciando l’idea di una riunione dei capi di tutti i partiti per lottare contro la corruzione e l’evasione fiscale, in modo da mandare «un potente messaggio all’estero», che mostri che la Grecia vuole risanare la sua economia.

 

In realtà, parte del problema risiede proprio nell’orientamento finora mostrato dal governo di voler risanare i conti facendo leva sulla lotta all’evasione, come dire prosciugare l’oceano con un cucchiaino da caffè. Secondo le autorità europee e gli altri paesi dell’Unione, questo ovviamente non basta e la scorsa settimana, avviando una nuova fase della procedura di deficit eccessivo sulla Grecia, i ministri delle Finanze Ue hanno chiesto misure supplementari: il piano greco, stando a quanto dichiarato da Atene, sarà pronto per gennaio.

 

Forse, conviene dirlo, sarà tardi poiché la situazione della Grecia è «gravissima». A dirlo non è il sottoscritto ma, a nome della presidenza di turno dell’Ue, il ministro degli Affari europei svedese Cecilia Malmstroem: «Certamente siamo inquieti. La questione non è formalmente sull’agenda del vertice Ue ma immagino che i leader parleranno informalmente della questione perché la situazione in Grecia è gravissima». Malmstroem ha aggiunto che «è una situazione difficile, che richiede tempo, coraggio politico e riforme. I greci sanno quel che devono fare ma sono in difficoltà e questo prende tempo. Comunque, siamo una famiglia e cerchiamo di sostenerci gli uni con gli altri».

 

Cerchiamo, appunto. Non si sa come, visto che dopo Atene toccherà a Dublino e poi via via tutti gli altri Stati che pur non andando in default dovranno pensare a preservare le proprie economie prima di tutelare quelle altrui: nell’Ue si litiga in tempi di pace, figuriamoci adesso. Ieri George Soros, speculatore tramutato in filantropo, ha detto che la Grecia non andrà in default: anzi, che «non le sarà consentito».

 

Verrà salvata ma il costo sarà l’accettazione della limitazione alla propria sovranità, oltre che un piano di riforme draconiano gestito dai burocrati europei: non è un caso che lo sconosciuto Herman Von Rompuy sia diventato il primo presidente della Ue. È stato “scelto” per quel ruolo e non dai partiti o dai cittadini ma da un direttorio ben preciso che vuole imporre nuove regole, prima delle quali la graduale cessione di sovranità da parte degli Stati: Grecia e Irlanda pagheranno il prezzo della sopravvivenza per prime ma certamente non saranno le uniche ad essere ridimensionate.

 

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I default di questi giorni, da Dubai ad Atene, sono frutto di un’economia sbagliata e di investimenti folli ma hanno anche uno scopo preciso: il tempo per tamponare le situazioni prima di arrivare all’emergenza c’era ma si è lasciato che tutto scorresse. Tira la stessa aria che tirava diciassette anni fa: la Grecia verrà comprata a prezzo di saldo e colonizzata, la Spagna che tanto si vantava dei propri record dovrà accettare di perdere qualche gioiello di famiglia, l’Irlanda maledirà il suo boom da “tigre celtica”.

 

La geopolitica a volte non basta, come abbiamo già detto altre volte questi sono tempi di geofinanza: Lehman Brothers fu fatta crollare per colpire interessi avversi agli Usa e mandare un segnale a chi di dovere in tempi di crisi, ora sono i default statali sul debito la nuova arma. Ora, a mente fredda, il rally dell’oro trova un senso anche al di là degli hedging anti-inflattivi di Stati quantomeno folkloristici corsi però a fare man bassa nelle riserve del Fondo Monetario Internazionale: c’è sempre una regia per tutto. Chiedete al visconte Etienne Davignon per ulteriori chiarimenti.