George Soros non è certo uno sprovveduto quando si parla dei marosi della finanza e delle operazioni spericolate, ma lui stesso, in un’intervista pubblicata recentemente su La Repubblica, si è detto ancora stupefatto del crollo di Lehman Brothers, del suo non salvataggio da parte del governo statunitense come fatto per altre istituzioni. Anche uno come lui non riesce a spiegarsi come sia stato possibile. A sentire questo mi torna in mente un titolo letto il 15 settembre del 2008.
«Crollo Lehman, ingenti danni per gli investimenti arabi e il greggio, vera vittima sacrificale della peggiore crisi finanziaria nella storia». A dare questa lettura decisamente di parte del terremoto finanziario che stava scuotendo il mondo era, martedì 16 settembre, il quotidiano panarabo al Hayat, edito a Londra, stampato in inglese e di proprietà saudita. Il quale lamentava come il prezzo del greggio sia «a meno 50 dollari al barile rispetto al limite di 147 dollari raggiunto nelle settimane scorse, il livello più basso registrato da sette mesi».
L’altro grande giornale panarabo, al Sharq al Awsat (anche questo di proprietà saudita) metteva invece l’accento sugli «effetti devastanti sulle principali borse dei ricchi Emirati del Golfo». Ovviamente la tutela dei propri interessi è legittima, ma un peana di questo genere per il calo del prezzo del petrolio dopo la spaventosa impennata dei mesi scorsi – che ha riempito le casse dei paesi produttori – e le recenti decisioni a sorpresa dell’Opec di tagliare la produzione appare quanto meno fuori luogo. Gli ultimi a piangere miseria, insomma, dovrebbero essere proprio i ricchi produttori di petrolio.
Ma attenzione perché la comunità finanziaria araba di Londra non parla mai a caso. E, soprattutto, scrive in arabo ma parla e ragiona in inglese. Tra le righe di quel messaggio viene lancia un’accusa precisa: il fallimento di Lehman è stato permesso scientemente perché questo avrebbe riequilibrato gli assetti. Ovvero, crollo del prezzo del greggio e una pesante batosta verso chi finora ha fatto soldi sfruttando la crisi e comprato a prezzi di saldo pezzi di finanza mondiale attraverso i fondi sovrani.
Che il governo americano abbia rifiutato un aiuto nei confronti di Bank of America se questa avesse salvato Lehman Brothers è noto, ma questo non rappresenta ancora una prova. Che Bank of America sia corsa a divorare Merrill Lynch subito dopo, anche in questo caso senza garanzie da parte di Washington, nemmeno. Anche il fatto che la banca britannica Barclays – in cordata proprio con Bank of America nella missione per salvare l’ex gigante di Wall Street – abbia acquistato alcune attività (le più sane e lucrose, brokeraggio e trading Usa) del gruppo Lehman Brothers non prova nulla ma dimostra che la carcassa della mayor di Wall Street faceva gola a molti e che lo spettacolo di disperazione che offriva non disturbava troppo il Tesoro americano e la Fed.
Il fatto però che su un sito informatissimo come Cnbc si parlasse apertamente di petrolio che toccherà a breve quota 75 dollari comincia invece a far intravedere qualche possibile scenario: ovvero, di fronte a un “too big to fail” malmesso come Lehman il segretario al Tesoro Usa, Henry Paulson (ex capo di Goldman Sachs), ha preferito indossare la maschera del liberista duro e puro rifiutando altri aiuti di Stato e ottenendo così un triplice effetto: far scendere il prezzo del greggio (vera leva della possibile ripresa), risparmiare denaro necessario a salvare attraverso un prestito ponte da 85 miliardi di dollari il colosso delle assicurazioni Aig e assestare uno shock “salutare” all’economia mondiale, quella occidentale, che necessita di disintossicarsi del tutto, ma soprattutto quella overvalued e troppo interventista dei paesi arabi e della Russia.
Non è un caso che sempre martedì 16 settembre la Borsa di Mosca fosse scesa del 16% a 905.57 punti, sotto la pericolosa soglia psicologica dei 1.000 punti, gettando letteralmente nel panico gli investitori e costringendo le autorità a sospendere le contrattazioni fino a venerdì 19. Una scelta strategica quella americana: Lehman, infatti, era la banca con la maggiore attività al mondo come trader di obbligazioni e fondi obbligazionari mentre Aig e il suo crollo avrebbero colpito letalmente quasi esclusivamente gli Usa e l’Europa, come denunciava il britannico Daily Telegraph poche ore dopo il salvataggio del colosso assicurativo: «Le banche europee erano particolarmente a rischio in caso di un fallimento della Aig, perché detengono i tre quarti dei 441 miliardi di dollari di strumenti complessi e deregolati protetti dalla Aig. Tali obbligazioni sono legate al mercato dei subprime, che si sta inabissando».
Europei salvi grazie alla Fed, quindi. E i russi, invece? «L’economia russa è sufficientemente solida per poter reagire alla crisi dei mercati, che si dimostra peggiore delle peggiori attese» ha sottolineato il presidente russo Dmitri Medvedev il 18 settembre scorso, secondo il quale «il mercato globale soffre la più grande crisi degli ultimi 10 anni. A cosa è legato? Lo sappiamo benissimo» ha precisato, avanzando una nemmeno velata accusa per le politiche economiche degli Stati Uniti, che si riflettono negativamente sui mercati internazionali. D’altronde bastava leggere il titolo della homepage del sito del quotidiano filo-governativo Izvestiya di giovedì 18 settembre per capire il clima: «Gli Stati Uniti si stanno dimostrando più pericolosi per il mondo di una minaccia nucleare».
Eravamo a cavallo tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre dello scorso anno. Guardatevi intorno: il rublo è crollato, il prezzo del barile resta basso nonostante le minacce dell’Opec di tagliare ancora e ancora la produzione, il piano Paulson – il famoso Tarp – non ha funzionato appieno ma è stato prodromico al progetto di “bad bank” in cui scaricare gli asset tossici a prezzi medi concordati e non in base al mark-to-market che Barack Obama si troverà costretto suo malgrado a varare. E che farà uscire le istituzioni finanziarie americane dalla crisi molto prima e molto meglio.
Insomma, il fallimento Lehman Brothers è stato strategico, voluto, globalmente indirizzato a colpire dove faceva più male ai nemici che sfruttavano la debolezza di un presidente a fine mandato e di un paese in piena crisi per muoversi su equilibri e interessi contrapposti a quelli di Washington. Il fallimento Lehman Brothers è stato il primo caso di “guerra per banche”. Chapeau. Speriamo sia anche l’ultimo. E che Dio benedica l’America.
P.S.: Prima parlavamo di Barclays corsa a divorare pezzi di finanza statunitense a prezzi di saldo. Un azzardo, in tempi di guerra per banche, visto che il gigante inglese è costretto ad ammettere la necessità di aumento di capitale ed è pronto a chiedere l’intervento del governo.
Peccato che quando lo scorso ottobre cedette al fondo sovrano di Abu Dhabi il 16,5% delle azioni per 5,3 miliardi di sterline, il board della banca accettò condizioni capestro come le cosiddette “mandatory convertible notes”, un complicato meccanismo di gestione del pacchetto azionario in base al quale oggi Barclays rischia di vedere salire il fondo di Abu Dhabi al 55%, perdendo di fatto la sovranità, se si vedrà costretta ad aumentare di nuovo il capitale.
Gli sceicchi, probabilmente, hanno scommesso proprio su questo quando hanno deciso di investire, hanno controllato bene i conti e hanno inserito la clausola sulla fluttuazione del valore del titolo che garantirebbe loro una montagna di azioni al prezzo minimo concordato: non stupirebbe scoprire che nel frattempo qualche loro trader abbia lavorato debitamente e in maniera massiccia sui credit default swaps di Barclays per guadagnare anche nel medio termine. Come già detto, gli arabi a Londra parlano e ragionano in inglese. E si fanno fregare una sola volta.