Un adagio borsistico dice: quando scende, compra. Lasciate perdere e scappate dal mercato, se per caso siete ancora dentro. Comprare quelle azioni che crollano è come cercare di prendere al volo un coltello caduto dal tavolo: con ogni probabilità, ci si taglia. L’altissima volatilità, i volume bassissimi e i book illiquidi fanno del mercato un acquario in cui nuotano solo i trader di un certo livello, ovvero chi ha bisogno di incertezza e volatilità per guadagnare.

Tre giorni fa il mondo sembrò gridare alla fine del tunnel per i rialzi folli delle piazze di tutto il mondo trainate dall’annuncio da parte di Citigroup di un ritorno al profitto nel primo bimestre di quest’anno. In tempi di disperazione, basta poco per entusiasmarsi. Infatti quel profitto di 19 miliardi di dollari è ante-imposte e ante-svalutazioni: pensate soltanto che nell’ultimo trimestre del 2008, quello horribilis per Citigroup, il profitto (sempre calcolato in base a queste condizioni) era di 13,4 miliardi di dollari.

Cosa ci sia da far schizzare gli indici al +6% se non la follia di un mercato, quello azionario, destinato a un ridimensionamento radicale, non lo si capisce. Anche un bambino, infatti, si rende conto che non ci si può fidare di indici che un giorno prezzano un’azione a 2 dollari e il giorno dopo la premiano con rialzi del 15%: è la stessa azienda, con gli stessi buchi di bilancio. Ormai, siamo all’insider trading istituzionale e politico per mantenere in vita aziende che dovrebbero fallire proprio per il bene del mercato.

Altra notizia che ha ringalluzzito New York e di riflesso le piazze europee è la quasi certezza nella reintroduzione in America del bando sullo short-selling, ritenuto la causa di tutti i ribassi del mondo quando invece è l’unico strumento in grado di dimostrare con i fatti lo stato di salute di un titolo e quindi di un’azienda. Così facendo si permetterà alle dirigenze e ai management di mezzo mondo di raccontare impunemente bugie al mercato senza la controprova del crollo del loro titolo grazie alle scommesse al ribasso dello shorting: ancora una volta la politica, invece di limitare il proprio intervento al minimo e all’indispensabile, entra a gamba tesa nel libero mercato tutelando sempre i soliti noti e mai i risparmiatori, gli investitori e gli azionisti. Se questo è il cambiamento di Obama, ne avremmo fatto volentieri a meno.

Di certo c’è, invece, l’aggiornamento dei cds sul default del debito dei paesi europei: a parte l’Islanda ormai fallita che presenta qualcosa come 1037 punti base per assicurarsi contro il default del debito a cinque anni, la classifica dei “vivi” (per quanto, ancora, non si sa) vede al primo posto l’Irlanda con 347,4 punti base, seguita dalla Grecia con 259,5 punti base, dall’Austria con 255,4 punti base, dall’Italia con 196 punti base, dalla Gran Bretagna con 155 e dalla Spagna con 146 punti base.

Peccato che la Gran Bretagna abbia già speso il 20% del proprio Pil per cercare di salvare le banche e nonostante questo abbia una prezzatura di cds più bassa della nostra: il debito pubblico italiano è fuori controllo – esattamente come l’esposizione di capitale ad Est dell’Austria – e non basteranno certo i Tremonti-bond a evitare i fallimenti o le perdite di capitalizzazione che a Londra stimano, per alcuni istituti italiani, almeno del 25% sul totale. La bolla degli assicurativi, poi, è ormai pronta a esplodere con gli istituti esposti verso banche e fondi (casualmente grazie a porcherie finanziarie che non si sa da dove arrivino e quanto valgano essendo trattate quasi tutte over-the-counter) e con un disperato bisogno di liquidità: serviranno, a breve, ricapitalizzazioni molto serie e non mancheranno le rights issue di emergenza. A quel punto titoli come Aviva e Prudential, in rally da tre giorni grazie alle rassicurazioni del management, crolleranno come castelli di sabbia.

Il quadro è fosco? No, è molto peggio. Mercoledì 11 marzo a Londra, nel corso di una conference call di Ubs, per presentare l’outlook dell’istituto e le strategie rispetto all’aggravarsi della crisi, si è parlato anche di altro: ovvero, «scenari di un’eurozona da cui ormai con certezza sarà costretto in breve tempo a uscire un membro». Già, l’Europa sta andando in frantumi e la Germania non pagherà per tenerla insieme con la colla: il detto inglese dice, “you broke, you fix it”. E vale per tutti, aprile sarà il mese della resa dei conti. E l’Italia, purtroppo, non sarà solo spettatrice delle disgrazie altrui. A giorni, appena sarà disponibile, il draft del documento di Ubs.