«Anche un gatto morto se cade dal terzo piano su qualcosa che lo fa rimbalzare torna su almeno una volta. Ma questo non significa che sia meno morto». Ambrose Evans-Pritchard, editorialista economico del Daily Telegraph, è noto per i suoi adagi taglienti e i suoi giudizi chirurgici: pochi, come quello appena riportato, sanno raccontare con cinismo e ironia la follia irrazionale di questi giorni sui mercati.

Ma anche Oltreoceano c’è chi non lesina critiche molto pesanti alle scelte dell’amministrazione Bush prima e di Obama poi, ma soprattutto alla Fed e alla sua suicida politica di tassi zero. Per Paul Craig Roberts, vice segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Reagan, quanto sta accadendo in America rischia infatti soltanto di rendere la crisi più lunga e dura. A partire dagli errori compiuti esattamente un anno fa, quando Roberts avanzò una proposta tanto provocatoria quanto coraggiosa per spezzare il circolo vizioso dello tsunami subprime e provare a evitare che vengano minati del tutto anche i fondamentali dell’economia: eliminare la regola del “mark to market”.

«Quella regola – spiega Roberts – obbliga le istituzioni finanziarie a scrivere sui libri contabili i loro mutui subprime ai valori di mercato correnti; invece per uscire dalla spirale in cui ci siamo infilati bisognerebbe consentire alle istituzioni speculative di mantenere questi strumenti derivati iscritti in bilancio al loro valore di carico, o almeno al 90% del loro valore iniziale. Così si guadagnerebbe tempo e si potrebbe sperare nella formazione di un mercato ad hoc».

Il problema, secondo Roberts, è che quegli strumenti finanziari sono finiti nei guai prima che si creasse un mercato in grado di fissare correttamente i prezzi in base al rischio e al potenziale di guadagno. «Quegli strumenti erano venduti direttamente dalle istituzioni che li emettevano agli investitori: comunque non quotati o fluttuanti in alcuna Borsa. Ora che sono malfamati e il loro valore è sconosciuto, nessuno li vuol comprare, è ovvio. È la non liquidabilità che ne abbassa il valore. Questa caduta libera ha trascinato le banche e i fondi speculativi all’insolvenza, per di più obbligandole, per far cassa, a vendere le azioni solide su mercati borsistici, accelerandone così il declino e infettando del male anche le aree sane dell’economia. Sospendere l’obbligo del “mark to market” avrebbe alleviato la pressione dalla Borsa e la Federal Reserve potrebbe evitare di abbassare ancora i tassi d’interesse per inserire liquidità nell’economia attraverso un sistema bancario che è danneggiato».

È come continuare a pompare acqua in una tubatura che perde: «Tassi d’interesse ancora più bassi peggiorano la crisi accelerando il declino del dollaro; ora che l’inflazione cresce, altra liquidità peggiora solo la crisi economica. In effetti non esiste un problema generale di scarsa liquidità: i problemi di liquidità riguardano solo questi strumenti finanziari mal concepiti».

Eppure proprio il giorno prima del clamoroso tracollo di Bear Stearns, un report di Standard&Poor’s vedeva la luce in fondo al tunnel subprime. Peccato che i fatti abbiano precipitato la situazione nel buio. «S&P sbagliava – rincara Roberts -. All’inizio la crisi toccava soltanto le banche e gli istituti che erogavano mutui, ora sono le istituzioni finanziarie non-deposit-taking a essere nei guai, basti pensare alle banche d’affari o a fondi come il Carlyle Capital. I derivati dei subprime, quindi, non sono affatto gli unici strumenti derivati a essere al centro della crisi».

Altro tema scottante è lo stato attuale dell’economia americana: qualcuno parla di recessione, altri di stagflazione come nei tardi anni Settanta, altri di depressione. «L’economia americana è già in recessione da almeno un anno, un anno e mezzo e lo è stata per la maggior parte del Ventunesimo secolo. Il Prodotto interno lordo, l’inflazione, la produttività e il numero di occupati sono altrettanti indicatori che nelle ultime decadi sono stati intaccati un po’ alla volta ma inesorabilmente e alle radici mentre le varie amministrazioni “aggiustavano” i numeri per farsi belli con l’opinione pubblica. Inoltre ora abbiamo la certezza che le statistiche sul Prodotto interno lordo e la produttività calcolavano in modo errato parti di produzione offshore delle aziende americane come Pil statunitense. Il basso costo del lavoro ottenuto utilizzando forza lavoro cinese ha gonfiato le statistiche di crescita della produttività. Inoltre l’economia americana è stata mantenuta in vita nel Ventunesimo secolo attraverso l’aumento del debito dei consumatori, non dalla crescita reale del reddito delle famiglie. I consumatori non possono più sostenere aumenti del debito per finanziare i propri consumi: in questo modo è impossibile che l’economia possa crescere. La stagflazione dei tardi anni Settanta fu frutto della politica keynesiana di gestione della domanda che pompava in alto la domanda dei consumatori attraverso denaro facile, ma diminuiva la produzione con alte tasse marginali. La politica di supply-side dell’amministrazione Reagan ribaltò questo scorretto mix di politiche, curando la stagflazione e ridando forza al dollaro. Ovviamente, continuando a fare errori come quelli che si stanno compiendo, il rischio di stagflazione può tornare».

L’indice è puntato contro la politica di tagli drastici dei tassi sposata in pieno dalla Fed di Ben Bernanke e benedetta da George W. Bush prima e da Barack Obama poi. «Con gli Stati Uniti dipendenti dagli stranieri per finanziare sia le guerre (ovvero il deficit del budget governativo domestico) sia il deficit commerciale, un basso tasso di interesse combinato con un valore declinante del dollaro farà fuggire gli investitori stranieri. In questo momento, il dollaro necessita tassi d’interesse più alti. Gli Stati Uniti non possono sanare il loro deficit commerciale perché la produzione offshore delle corporation statunitensi per il mercato americano contano come import. Producendo all’estero per il mercato interno, le corporations americane hanno fatto esplodere il deficit commerciale e distrutto milioni di posti di lavoro americani nella classe media».

Insomma, una soluzione alternativa c’era e Roberts l’aveva proposta un anno fa. La solita protervia degli ultra-liberisti? Forse, peccato che proprio ieri – a un anno di distanza – Puru Saxena, ascoltatissimo amministratore delegato della Puru Saxena Wealth Management, regalava queste parole in un’intervista alla Cnbc: «Gli Stati Uniti sono già in bancarotta visto che il loro debito sorpassa di quattro volte il valore della loro economia. Gli Usa sono pesantemente a rischio di iper-inflazione».

Non solo. Per Stephen Roach, capo del ramo asiatico di Morgan Stanley, «il fatto che la Fed abbia annunciato la decisione di comprare 300 miliardi di dollari in buoni del Tesoro legati al debito pubblico americano è un pessimo segnale: pompare soldi, ora, non serve a nulla se non a creare le condizioni di ulteriori crisi».

Saranno anche tutti ultra-libertisti e Chicago Boys ma, a occhio e croce, fino a ora le miracolose ricette di neo-keynesiani e neo-colbertisti hanno miseramente fallito nel loro tentativo di arginare la tempesta perfetta della crisi e del credit crunch.