Come è normale, il terribile terremoto che ha squassato l’Abruzzo ha stravolto i normali canoni della comunicazione catalizzando su di sé tutta l’attenzione dei media e facendo passare in secondo piano anche la terribile crisi economica che stiamo vivendo.

Ma proprio il terremoto e l’enorme sfida per la ricostruzione che esso pone, anche a livello finanziario per le casse dello Stato, ha concentrato un interesse collaterale sul progetto per il Ponte di Messina e per l’Expo milanese: ci saranno i soldi per loro, sono ancora prioritari? Sull’appuntamento fieristico, poi, non sono mancate le polemiche per il nome, il compenso e il doppio incarico dell’uomo chiamato a guidare la macchina operativa, l’ex ministro Lucio Stanca.

Problemi seri, certo ma ben poca cosa di fronte al vero tsunami che sta per abbattersi sugli enti locali italiani, Milano e Roma in testa, nel silenzio generale. Si tratta della sfida tra le banche d’investimento londinesi e molte amministrazioni locali italiane per lo scandalo dei contratti derivati di swap che hanno inguaiato – e non poco – i conti di comuni, province e regioni, rei di aver stipulato negli ultimi anni contratti per ben 35,6 miliardi di euro in derivati, molto spesso più per ottenere liquidità a breve termine che per ristrutturare il proprio indebitamento.

Oggi con i tassi che puntano al ribasso fisso, i nodi rischiano di venire al pettine per chi ha scommesso sulla variazione fisso-variabile in una riedizione finanziaria della roulette russa de “Il cacciatore”. Solo Milano ha una perdita teorica sul suo swap da 1,8 miliardi di oltre 200 milioni, mentre tanti piccoli comuni hanno maturato voragini pari a diversi anni del loro intero bilancio. Insomma, un disastro. Il dato ufficiale del Tesoro a fine 2007 parla di 36 miliardi di euro di derivati in essere per poco meno di 600 enti locali. Per la precisione: 18 regioni su 20, la metà delle province e 500 comuni da piccolissimi a 50 capoluoghi. Praticamente tutta Italia, da Milano a Roma, da Torino alla Regione Liguria fino a piccoli comuni come Boschi, 2700 abitanti in provincia di Perugia, per il quale chiudere il contratto per evitare altri costi significherebbe dover sborsare 250mila euro di penale.

E a rendere il quadro ancora più fosco c’è il fatto che la controparte contro cui gli enti locali vorrebbero dar vita a una sorta di class action hanno nomi roboanti: JP Morgan, Deutsche Bank, Nomura (la banca giapponese che ha rilevato il ramo di investment banking di Lehman Brothers a Londra), Ubs, Merrill Lynch e Barclays. Insomma, il gotha della finanza internazionale. Che, tra l’altro, avrebbe già cominciato a preparare le contromosse addirittura con il beneplacito del Treasury, terrorizzato dal fatto che in un momento come questo gli istituti britannici e la piazza finanziaria londinese in generale possano pagare un altro pesante prezzo in termini di credibilità e anche di eventuali risarcimenti.

La strategia inglese è chiara: trasformare lo scandalo derivati degli enti locali in un nuovo caso Parmalat, ovvero far passare l’accaduto per l’ennesima truffa all’italiana contro i risparmiatori (in questo caso i cittadini) utilizzando la strategia psicologica di caricare la responsabilità su chi ha voluto giocare con soldi pubblici a un gioco rischioso e che non conosceva. Il vecchio adagio del comportamento da buon padre di famiglia, caposaldo del diritto, potrebbe quindi trasformarsi in una potente arma di difesa.

Inoltre a Londra fanno affidamento sul fatto che per denunciare penalmente il danno questo debba essere precisamente quantificato, ma visto che il contratto è ancora in essere per la gran parte degli enti interessati questa operazione non è possibile e ci si limita, come accaduto per il comune di Milano, alla denuncia del sovrapprezzo già pagato alle banche. Già, Milano. Qui il Comune ha sottoscritto il più grande contratto di interest rate swap d’Europa, 1,7 miliardi di euro, con le cinque banche internazionali di cui abbiamo parlato prima. Alla firma del contratto, il 27 giugno del 2005, le banche avevano già incassato 100 miliardi delle vecchie lire di plusvalenza, visto che l’operazione era proposta al Comune a un prezzo più alto di quello di mercato. E in tre anni hanno raddoppiato.

In cambio il Comune ha ricevuto 100 milioni di euro di liquidità, peccato che ora il successore dell’allora sindaco Gabriele Albertini si ritrova con 400 milioni di euro di perdita. E visto che la leva di quasi tutti i contratti (l’80% circa) cominciava ad andare in perdita per la danza dei tassi, in molti si sono lanciati sui credit default swaps come strumento di difesa. In sostanza, hanno stipulato un’assicurazione con le banche sull’insolvenza della Repubblica italiana: le perdite nominali se le accollava la banca e il Comune assicurava che lo Stato non fallirà. Con costi notevoli. Geniale, visto che gli enti italiani si troveranno ora a fare le pulci alle istituzioni di un paese dove dal 1991 gli stessi enti locali non possono contrarre per legge contratti swap poiché speculativi.

Chissà quale sarò il foro competente a dirimere la controversia, sempre che ci si arrivi, visto che parliamo di un mondo in cui la Sec per otto volte non è stata in grado di fermare la mega-truffa di Bernard Madoff.

P.S. Quasi nessun giornale mercoledì scorso ne ha dato conto, nemmeno nelle pagine economiche pur ridotte all’osso per l’emergenza terremoto, ma stando a quanto rilanciato dal “Times” aumentano drammaticamente le stime del Fondo Monetario Internazionale sulla mole delle attività “tossiche” accumulate nei bilanci di banche e compagnie assicurative: siamo a quota 4mila miliardi di dollari. A confermarlo è la bozza di un rapporto del Fondo Monetario Internazionale che verrà pubblicato il 21 aprile prossimo.

Quello indicato è un valore che rappresenta quasi il doppio rispetto ai 2.200 miliardi denunciati dallo stesso Fmi appena lo scorso gennaio: per le attività “tossiche” originate negli Stati Uniti si stima un valore complessivo pari a 3.100 miliardi di dollari, a cui si aggiungono altri 900 miliardi di dollari dall’Europa.

E «per la fine del mese queste stime potrebbero essere ulteriormente aggravate», avvertiva il quotidiano londinese. Il rapporto definitivo infatti verrà pubblicato nell’imminenza degli incontri di primavera di Fmi e Banca Mondiale, il 25-26 aprile a Washington. Alla luce di queste cifre, in predicato di peggioramento, la montagna del G20 ha davvero partorito il topolino dei 1000 miliardi ipotetici da iniettare o far stampare e gestire dal Fmi: spente le telecamere, la verità viene sempre a galla.