Guardo i listini di Borsa e mi pongo delle domande. A metà della giornata di contrattazioni le piazze europee nella seduta del 16 aprile correvano trainate da Nokia e dai titoli bancari: Ubs guadagna il 5 per cento, Deutsche Bank e Credit Suisse il 4,6, Barclays e Unicredit il 3,5 per cento. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Fine del sogno. I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità calata ai minimi da mesi – l’indice Vix è sceso a 38 dopo aver toccato anche 75 – pompano entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo.

Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi – e quindi dover rendere conto delle loro operazioni – e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di procedura di infrazione presso le varie centrali rischi che dopo novanta giorno intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa è folle, le piazze oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve: l’economia reale, invece, affonda giorno dopo giorno.

Ma volendo volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner. La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo ora, in questi giorni. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi il prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi.

Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio. Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiale rari come il titanio, l’indio – utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia – , il rodio – fondamentale per i convertitori catalitici – e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame in febbraio, 375mila in marzo. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento a 4.925 dollari la tonnellata quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.

Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisse – come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard – lo strapotere del dollaro e prevenisse gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e ovviamente si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense. Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo possibile manipolazione valutarie, garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio e permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire.

Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.