Gli anniversari, sempre più spesso, si limitano ad essere vuoti rituali rispettati più per abitudine che per reale voglia di ricordare qualcosa degno di essere ricordato. Non è questo il caso. A volte infatti ci sono ricorrenze che sembrano segnate dal destino, chiamate a un ruolo di vigilanza, di risveglio intellettuale prima che economico, di custode di un’esperienza che si va perdendo e che mai come oggi sarebbe invece fondamentale riproporre. Quantomeno nello slancio ideale se non nelle ricette poste in essere, datate e rese impraticabili dal tempo e dai mutati equilibri.

Oggi, infatti, cade il trentesimo anniversario dell’elezione di Margaret Thatcher a primo ministro britannico e in tempi in cui la miglior risposta che Downing Street sembra sapere dare alla crisi è una nuova politica industriale di partecipazione statale degna dell’Iri e l’aumento delle tasse al 50% ai ceti che guadagnano più di 150mila sterline l’anno, la rivoluzione liberale della Iron Lady appare quantomai attuale.

Margaret Thatcher seppellì definitivamente il concetto di ideologia, antepose l’intrapresa e la libertà individuale ai veti sindacali e alle industrie desuete e disfunzionali, garantì ai ricchi di diventare più ricchi ma anche ai meno abbienti di diventarlo di più. Famiglie che al loro interno avevano una tradizione di blue-collar, impiegati spesso statali quando non operai, scoprirono la soddisfazione di una figlia o un figlio divenuto un white-collar del terziario. Prima della Thatcher si viveva in council house, dopo la Thatcher si registrò il più alto tasso di proprietari di casa tra la classe medio-bassa di sempre.

Tasse basse, enorme mobilità sociale, Stato che interviene solo dove deve e non dove vuole o più gli fa comodo (si chiama, anche Oltremanica, sussidiarietà), voglia di fare, eliminazione del ricatto di sciopero politico e della rendita di posizione del partito del “no”: queste le ricette che trasformarono la Gran Bretagna da grande malato d’Europa a locomotiva del vecchio continente. Il blairismo, almeno il suo primo mandato, sembrò ricalcare queste orme: poi, lentamente, al passo svelto riformista subentrò la camminata compiacente del day-by-day, del non scontentare nessuno, del sapere fare convivere progresso sociale e consenso diffuso, cosa ben diversa dalla coesione sociale.

Oggi come non mai servirebbe una Margaret Thatcher per spezzare non solo l’assurda deriva revanscista del governo Brown ma questa stessa idea di Europa pauperista e giacobina che spinge sull’acceleratore del populismo da quattro soldi per distruggere l’economia, la finanza e riportare sotto il gioco centralista e statalista franco-tedesco l’asse dell’Unione. È di mercoledì scorso, infatti, la notizia in base alla quale l’Unione Europea ha varato il cosiddetto “passaporto Ue” per gli hedge funds, sia comunitari che provenienti da paesi terzi come la famigerate – per qualche solone del debito pubblico – Cayman Islands.

Maggiori controlli da parte di Bruxelles, limiti di intervento ridicoli a livello di ammontare degli investimenti gestiti, spese di iscrizione e di chiusura: cui prodest? A nessuno, tantomeno ai piccoli risparmiatori che Lagard e Stainbruck vorrebbero tutelare ma che non hanno nemmeno in fotografia la quantità di soldi necessaria per investire in un fondo speculativo. Parigi e Berlino vogliono vendicarsi della crisi facendola pagare a chi ha inciso si è no al 3-5%: sono le banche europee,
quelle salvate in fretta e furia soprattutto da Germania e Francia, ad aver agito su larga scala con leva di 1:60, non certo gli hedge. È tutta e soltanto una suicida, miope e incapace ritorsione politica contro Londra, sede dell’80% degli hedge funds europei e destinata a perdere il suo ruolo di faro finanziario grazie al combinato tra politica interna del Labour e azione in sede Ue dell’asse Merkel-Sarkozy.

Colpire gli hedge funds non serve a nulla se non a distruggere posti di lavoro e far venire meno ai mercati un afflusso di capitale necessario in questi momenti di liquidità scarsa, bassa volumi e book illiquidi se non per bolle create ad arte al fine di garantirsi rally fantasmi di quattro giorni per fare denaro facile: questa sì, bieca e inutile speculazione. La Fsa, l’ente di regolazione dei mercati finanziari londinese, è già salita sulle barricate avvertendo l’Ue che gli hedge funds nella capitale britannica sono già regolati e controllati e non necessitano di un grande fratello che vigili da Bruxelles o peggio da Francoforte.

Siamo alla follia: si impongono limiti di leverage a fondi d’investimento privati e lo si fa dallo stesso pulpito che per anni non ha visto – o ha finto di non vedere – grandi banche come Rbs, Fortis, Deutsche e quant’altro utilizzare leve di esposizione folli rispetto alle riserve per presentare trimestrali a doppia cifra (e quindi garantire ai manager bonus a tre cifre). Qualche cifra? Le banche europee sono esposte verso l’Europa centrale e dell’Est per 1300 miliardi di euro, oltre all’esposizione verso la finanza Usa che promette almeno 500 miliardi di perdite.

Le sole banche tedesche hanno attivi tossici per 816 miliardi di euro, un quarto del Pil tedesco: lo documenta la Bafin, l’ente di controllo finanziario Tedesco, non qualche “gufo”. La rete delle Landesbanken (fallite salvate dallo Stato), da sola, può “contare” su 355 miliardi di assets tossici, 268 dei quali in pancia soltanto a Hypo Real Estate. Ecco l’Europa franco-tedesca che vuole vigilare e controllare tutto e tutti.

Voler intervenire su qualsiasi fondo che gestisca più di 100 milioni di dollari è operazione degna dell’Unione Sovietica finanziaria, frutto di una volontà politica ed egemonica che vorrebbe forse farci tornare all’industria pesante di Stato: o forse, vuole solo garantire ancora sussidi ai nullafacenti agricoltori francesi – un esercito – e la leva di potere regolatore per salvare Deutsche Bank e Hypo Real Estate, veri crucci del cancellierato Merkel in vista del voto politico di settembre prossimo.

Come vedete, ora come mai, ricordare i trent’anni dall’elezione di Margaret Thatcher al 10 di Downing Street non è solo importante ma vitale, un dovere morale prima che politico. Se non vogliamo tornare indietro a quando proprietà significava furto e ricchezza vergogna: serve responsabilità, non la censura preventiva e il controllo orwelliano da parte di burocrati che fino all’esplosione della crisi nella migliore delle ipotesi non si erano nemmeno accorti di cosa accadeva. E nella peggiore ne hanno tratto profitto.