Mercoledì pomeriggio il solerte e sempre puntuale ufficio stampa italiano presso il Parlamento europeo ha inviato sulla mia casella di posta elettronica la consueta sfilza di comunicati.

Uno, in particolare, mi ha colpito e voglio condividerlo con voi riportandolo per intero. Eccolo: «Il Parlamento ha adottato un regolamento che, migliorando la gestione del rischio, intende evitare il ripetersi della crisi che ha colpito diverse banche nel mondo ripercuotendosi poi sugli altri settori economici. Si tratta, in particolare, di migliorare la trasparenza e la supervisione sul sistema finanziario, aggiornare le norme sulle grandi esposizioni finanziarie e introdurre l’obbligo per i promotori di mantenere un interesse reale negli investimenti che propongono ai clienti».

Accidenti, era ora! Peccato che poi uno si fermi e ragioni sul fatto che queste parole giungono dalle stesse persone che negli ultimi cinque anni non si sono nemmeno accorte che le banche europee operavano allegramente con leva di leverage 1:60 come fossero istituti finanziari newyorchesi e non come istituzioni deputate al risparmio e al credito.

Se infatti l’America ha creato le condizioni perché la crisi finanziaria la travolgesse, l’Europa cosa ha fatto negli ultimi tempi per prevenire quanto sta accadendo nel suo sistema bancario? Nulla nonostante nel corso del vertice informale tenutosi in Lussemburgo il 14 maggio del 2005 venne trovato un accordo a maggioranza su un unico punto: un memorandum d’intesa per la creazione di un piano di emergenza consistente nello scambio aperto e rapido di informazioni internazionali tra i membri su eventuali crisi in atto al fine di evitare la loro espansione al continente in una sorta di effetto domino, per fronteggiare un’ipotetica crisi finanziaria a livello europeo.

Il documento, facilmente reperibile sui siti istituzionali dell’Ue, si intitolava “Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra supervisori bancari, banche centrali e ministri delle Finanze dell’Unione Europea su situazioni di crisi finanziaria” e si basava su otto punti, sostanzialmente una riedizione rafforzata del precedente memorandum varato nel 2003. Quella riunione decise che l’aprile dell’anno successivo si fosse tenuta una simulazione di collasso bancario continentale sotto l’egida del Financial Services Committee a Francoforte. In sede Ecofin, insomma, si stava valutando l’ipotesi di una crisi finanziaria a livello europeo sul modello di quella che squassò l’Asia nel 1997-98 o di quella più limitata che nel 1992-94 toccò le regioni scandinave.

A rendere il tutto ancora più credibile – lasciando in bocca un sapore di incombenza che le autorità invece negavano, Trichet in testa – fu poi la dinamica scelta per il piano di simulazione della crisi: stando agli studi dell’epoca, infatti, sarebbe stato il collasso di una grande banca operante a livello continentale a far scatenare l’effetto domino generale. All’epoca in sede comunitaria si parlava, riferendosi all’accordo, di nulla più che di un’estensione dell’intesa già esistente tra banche centrali e regolatori (quello del 2003 citato in precedenza), sfuggì però ai più che questa “estensione” vedeva coinvolti anche i ministri delle Finanze dei 25.

Sempre in seno a questa operazione gestita dall’Ecofin fu bocciata a larga maggioranza la proposta di creare un super-comitato centrale – con sede a Bruxelles – che monitorasse tutti i possibili scenari di crisi interni all’eurozona. Ma come andò quella simulazione? Il 9 settembre a Helsinki si tenne una nuova riunione dell’Ecofin tesa proprio a valutare i risultati ottenuti: nessun giornale sembrò dare troppa importanza alle parole del presidente finlandese, Tarja Halonen, il quale disse in maniera molto diplomatica che il sistema Ue di vigilanza e intervento era assolutamente inadeguato.

Il 12 settembre, tre giorni dopo, un solo giornale, European Report, sottolineava la pesantezza della situazione con un articolo dal titolo “L’Europa si scopre impreparata a gestire una crisi finanziaria”. Da allora, cosa è accaduto? Alla riunione dell’Ecofin del 9 ottobre 2007, a scandalo Northern Rock già scoppiato, si discuteva di eccessive procedure sul deficit di Gran Bretagna e Repubblica Ceca mentre il 23 gennaio di quest’anno, a crisi ormai esplosa, in Slovenia si tornava a parlare di necessità di rafforzare la cooperazione sulla supervisione. Questo tanto per completezza d’informazione: ciò che dice Bruxelles ha lo stesso peso di quanto dichiarato da un ubriaco che abbaia alla luna e vaneggia di amori perduti. Grazie al cielo le crisi non portano solo drammi, però.

Lontano dal mondo dei burocrati, infatti, sta crescendo a dismisura un nuovo mercato del credito e assicurativo: quello della grande distribuzione che sta attrezzandosi per potenziare i propri rami finanziari e divenire nuovo riferimento per il risparmiatore. In Gran Bretagna il fenomeno è ormai consolidato, tanto che tutte le catene di supermarket – da Tesco ad Asda, da Waitrose a Marks&Spencer fino a Sainsbury – si sono lanciate in questo business con enorme energia e dispendio di mezzi.

Il perché del fenomeno è chiaro: disillusi dalle banche tradizionali che hanno utilizzato le riserve di capitale per giocare con i derivati, scottandosi le dita, i cittadini tornano all’economia reale, alla solidità di un’azienda con bilanci in ordine e da far tornare sempre. Insomma, i miei risparmi, il fondo pensione, quello d’investimento o l’assicurazione sanitaria meglio affidarla a chi mi vende ogni giorno pane, carne e latte piuttosto che a qualche banchiere con enorme esperienza nel settore ma che magari, come alcuni associate al consorzio Patti Chiari, vendeva ancora il 13 settembre scorso – a due giorni dal fallimento – prodotti Lehman Brothers quando il loro cds era a livelli astronomici.

Soltanto Tesco può già contare su 6 milioni di sterline di depositi sui conti e operatività di carte di credito e su 4,5 miliardi di sterline di deposito base: solidità totale e nessun derivato nei bilanci. Di più, entro la fine dell’anno aprirà 30 filiali bancarie all’interno di altrettanti grandi magazzini nel Regno Unito. Neil Saubnders, capo analista alla Verdict, avanza questa previsione per il gigante britannico del retail, catena capace di fare utili d’oro in un momento come questo: è certo che entro dieci anni Tesco potrà aumentare il suo portafoglio di assets e prestiti da 6,2 miliardi a 196 miliardi, con un aumento dei depositi da 4,5 miliardi a 114 miliardi; non cifre da grande banca ma capace di elevare Tesco al livello di Lloyds Tsb prima della fusione con Hbos.

Ma Saunders non è l’unico a fare rosee previsioni per il settore. «Penso che entro cinque anni almeno il 50% dei cittadini del Regno Unito avrà un conto o comunque un rapporto finanziario di investimento con una catena di grande distribuzione. La crisi sta facendo la fortuna di questi retailers, dopo che la banche hanno distrutto da sole la loro credibilità verso i cittadini», ha dichiarato al Sunday Times Michael Lafferty, presidente del gruppo di analisi finanziaria Lafferty Group.

Ovviamente gli assets su cui contare sono per ora limitati se si pensa che l’insieme dei principali gruppi di retailers operanti in ambito finanziario e assicurativo possono contare su 46 miliardi di sterline quando la sola e ormai disastrata e nazionalizzata Royal Bank of Scotland ha 2 trilioni, ma questo poco importa: nessuno intende fare guerra aperta alle banche ma solo offrire un’alternativa ai consumatori e ai risparmiatori. È una nicchia significativa legata all’economia reale e non all’iperuranio di certa finanza che di per sé non è cattiva ma solo troppo complicata per le menti non sempre lucidissime dei banchieri non d’investimento.

Non è un caso, poi, che sia Hsbc che Lloyds, ovvero gruppi bancari veri e propri, abbiano fiutato l’opportunità e si stiano tenendosi strette le loro joint venture con le catene Marks&Spencer e Sainsbury per l’offerta di prodotti finanziari e assicurativi. In Italia pensate sia possibile una cosa del genere? Va beh, scherzavo. Già vedo l’Abi mettere mano al fucile…

P.S. Proprio parlando di Abi nel momento in cui stavo spedendo questa rubrica, apprendevo dalle anticipazioni di “Panorama” in edicola oggi in Italia che le banche italiane non hanno bisogno degli “stress test” per verificare la loro solidità patrimoniale ed economica. È il piccato messaggio che appunto l’Abi, l’associazione delle banche italiane guidata da Corrado Faissola, ha inviato al comitato di Basilea, l’organismo costituito dalle banche centrali dei dieci paesi più industrializzati, che si accinge appunto a imporre questo tipo di esame.

A parere dei banchieri italiani, i criteri con i quali dovrebbero essere condotti gli stress test appaiono troppo generici e nello stesso tempo troppo invadenti. Insomma, rischiano di far saltare fuori le magagne che fino ad oggi poca trasparenza e Tremonti-bond avevano coperto, esposizione ad Est in primis. Cari risparmiatori siete avvertiti, il malato non vuole fare il check-up… Provate a chiedere al vostro supermarket di fiducia se non intende seguire l’esempio inglese.