Pensavo di aver esaurito il capitolo dedicato all’Europa e al perché pagherà più caro di tutti il conto alla crisi economica. Pensavo, infatti. Poi quando ti arriva sulla casella di posta elettronica un bel sondaggio di Merrill Lynch in base al quale, nonostante la Cina stia traballando non poco, il 63% dei fondi d’investimento si getterà anima e cash nei mercati emergenti, Cina e Indonesia in testa e si piazzerà invece short su qualsiasi assets abbia denominazione Ue, allora capisci che non c’è mai fine alle conferme.
Il 54% degli interpellati – e parliamo di 221 fondi che gestiscono nel complesso 635 miliardi di dollari – è pronto a porsi in posizione overweight sui mercati emergenti, tanto da portare Gary Baker, capo dell’equity strategy di Merrill Lynch per l’Europa, a dire che «il sentimento verso quei mercati è talmente sovraccarico da creare più di un disappunto». Anche perché il 30% dei fondi ha chiaramente detto che i loro portafogli europei per il prossimo anno saranno strategicamente underweight a causa «della sopravvalutazione dell’euro e degli stimoli dei vari governi».
C’è poco da stare allegri, quindi. Ma non solo per noi, visto che comunque la Cina continua sia ad accumulare riserve – ha toccato nei giorni scorsi i 2000 miliardi di dollari – e a comprare i titoli del debito americano, ma rischia di non essere in grado di gestire quella massa enorme di capitale: sarà costretta, temono a Washington, a cominciare a scaricare dollari. Ma dove?
Tutto questo mentre nel silenzio generale la Banca Mondiale ha reso noto a chiare lettere che l’economia globale sta virando verso una spirale deflazionistica se non si sarà in grado di mettere in campo una seria politica di taglio della capacità industriale, situazione necessaria per evitare nuovi spasmi di stress finanziario e nuovi pacchetti di salvataggio. Anche perché la via maestra per uscire da queste situazioni, ovvero la svalutazione, non è percorribile.
Ma proprio dall’Asia, il mercato visto come l’Eldorado dai fondi, arrivano le notizie peggiori, questa volta da parte di Stephen Roach, direttore di Morgan Stanley Asia. Ecco il suo pensiero: «Quanto accaduto a Citigroup deve farci capire che la crisi non è finita e che le svalutazioni miliardarie saranno ancora all’ordine del giorno. La reazione del mercato al carattere anemico della ripresa è sicuramente euforica ed è attualmente nulla più che il riflesso di un eccesso di liquidità pompata nel sistema dalle autorità monetarie. Ma questo non può durare e la cosiddetta ripresa che qualcuno sta intravedendo si tramuterà in qualcosa di sgradevole. Nessuno si chiede dove sia la domanda, io me lo chiedo. Girate per il mondo, venite qui nell’Asia dei miracoli economici e ditemi dove vedete una ripresa della domanda? Lasciamo stare l’ottimismo da green shots, quindi e guardiamo ai fondamentali: il sistema sta continuando a funzionare perché è sotto la flebo dei soldi governativi, da solo non sarebbe in grado di fare nemmeno quattro passi».
Quindi, poche speranze per almeno metà abbondante del 2010. Qualcosa, però, nel frattempo si può fare. Ad esempio comportarsi come il governo britannico che – a fronte del peggior incremento del tasso di disoccupazione da 20 anni a questa parte, giovanile in testa – ha detto chiaro e tondo alle banche che con il Libor, il tasso di riferimento con cui si scambiamo cash gli istituti, all’1% (non accadeva dal 1986) è inaccettabile che si facciano mutui al 3,25% quando la gente già fatica ad arrivare alle fine del mese. Quindi, o ci si dà una regolata o le banche – soprattutto quella nazionalizzate e semi-nazionalizzate, quindi che non possono tecnicamente fallire e non necessitano di accumulare riserve proprio ora – dovranno pagare un prezzo molto alto a livello di penali.
Sarebbe bello che anche in Italia qualcuno cominciasse a dire qualcosa del genere, invece di preoccuparsi di questioni che purtroppo investono l’Ue se non addirittura il G8: il governo dica chiaro e tondo ai banchieri che la crisi non è passata e la loro primaria missione deve essere quella di sostenere le imprese e le famiglie. Questo, in un contesto ancora buio, sarebbe un raggio di luce da cui ripartire e soprattutto un messaggio di realismo e responsabilità: non è accettabile che con i soldi dei Tremonti-bond si facciano fidi e prestiti alle squadre di calcio per fare la campagna acquisti (succede ancora, state tranquilli) e non all’imprenditore che con fatica manda avanti una fabbrica con dieci operai.
Se fate un giro a Londra in Baker Street i nostri marchi dell’arredamento hanno atelier amati e frequentati dalla Londra bene che vuole l’eccellenza artigiana italiana: non capirlo e continuare a rincorrere le speranze da grande industria decaduta di Fiat (a proposito, dopo i giorni da leoni a Detroit avete notizie dei capitani coraggiosi di Torino?) è disfunzionale, sciocco e suicida in un momento simile. Tremonti agisca sulla leva del credito e sarà un primo passo fuori da questo mare di guai.