Il mondo ha tremato l’altro giorno, esattamente come il 26 febbraio 2007, data di inizio della crisi reale: è infatti risuonato lo “Shanghai surprise”. Cosa sia è presto detto. Nulla di tecnico come l’Hindemburg Omen, ma certamente un brutto cliente; significa il crollo dell’indice Shanghai Composite: due anni fa, dopo mesi di rally, crollò di colpo di 268 punti, ovvero dell’8,8%. L’altro giorno di 265, ovvero il 7,7%.

Un altro tornado all’orizzonte? Lo diciamo da tempo. Ma la ragione principale di questo accadimento sta nei dati devastanti che arrivano dalla Cina. Non è un caso, infatti, che come scritto nell’articolo di ieri la decisione della Banca Centrale cinese di obbligare le due principali banche del paese a tagliare drasticamente i prestiti abbia gettato nel panico in molti. Le Borse di paesi emergenti come Russia e Brasile (gli stessi che stanno emettendo bond come se piovesse, tanti auguri a chi sottoscrive) sono cadute rispettivamente del 2,8% e dell’1,8% e con loro i prezzi delle commodities: rame, petrolio, oro.

Tutto giù, perché piaccia o meno ormai la lente d’ingrandimento della ripresa è quella cinese, non quella Usa o quella Europa. E la Cina non sta ripartendo. Anzi. La città di Dongguan, sud del Paese, è la roccaforte dell’export del Dragone: da sola batte per volume esportati l’intero Vietnam, paese che come sapete non è proprio una matricola da quel punto di vista. Bene, nei primi mesi di quest’anno l’export da Dongguan è crollato del 24% e si è perso il 10% dei posti di lavoro, 630mila unità. La crisi ha colpito in prima istanza le piccole fabbriche, 342 delle quali sono fallite da gennaio a giugno.

Il dato della disoccupazione urbana su scala nazionale non fa sperare di meglio: siamo al 4,3%, ovvero 9,6 milioni di disoccupati nel motore della crescita mondiale. E Pechino cosa fa? Da un lato corre ai ripari con manovre delicate quanto un elefante in cristalleria che fanno deragliare i mercati e dall’altro mente sui dati di crescita per tranquillizzare il mondo. Parlare del 6,1% nel primo trimestre di quest’anno, infatti, è semplicemente irrealistico se posto in paragone con il calo dell’utilizzo di energia elettrica del 3,2% registrato a maggio e con quello delle spedizioni navali, calate del 26% e quindi moltiplicatore della crisi dell’export.

Inoltre, l’ennesima massa di prestito da 1000 miliardi di dollari emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato a scopo puramente assistenziale per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi. Inoltre la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante: «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).

Già, queste sono le previsioni: Pechino, attraverso le banche, nei primi sei mesi di quest’anno ha prestato troppo, la cifra folle di 7,400 miliardi di Rmb, tre volte quanto prestato nello stesso periodo del 2008. Inoltre, un quinto di questi prestiti sono utilizzati per comprare azioni: le stesse che crollano quando le banche, come ora, cominciano a tagliare i prestiti. Un cortocircuito devastante, visto che se si scaricano azioni sullo Shanghai Composite significa che i mercati, fiduciosi che la Cina fosse il volano della ripresa anzitempo, stanno innervosendosi e cominciando a non vedere più la fine del tunnel dopo aver letto le vere cifre del Dragone.

Non sarà un crollo verticale, visto che quei prestiti sono stati emessi e per un certo periodo il cash/flow continuerà sui mercati come nell’economia reale: ecco, questo potrebbe essere il turning point. Se i regolatori e le istituzioni scambieranno per ripresa i timidi, falsi segnali dati da questa iniezione prolungata, una sorta di effetto “vaso comunicante”, e non interverranno con politiche pronte ad arginare lo shock autunnale, allora saranno davvero dolori.

In troppi si eccitano con i green shots della Borsa e non tengono conto dei dati macro che giungono dalla periferia potente del mondo. Dati e notizie tutt’altro che buone, come le previsioni per il futuro. Avvalorate, queste ultime, da un dato spaventoso presentato da Michael Pettis dell’Università di Pechino: «Se correttamente calcolato, senza maneggi politici o di propaganda, il rapporto debito/Pil della Cina sta ormai viaggiando a livelli del 50-70%». Le banche, poi, non stanno meglio: l’esposizione ai debiti corporate ha toccato i 4.200 miliardi di dollari, una cifra che sale a colpi del 30% alla volta a fronte di una contrazione dei profitti del 35%. Il cosiddetto roll-over risk, il rischio legato al pagamento o alla rinegoziazione di un debito, sta salendo a dismisura.

E il problema è che in molti vedevano la Cina come il motore che poteva far ripartire l’economia mondiale e, soprattutto, garantire un mercato del debito sufficiente a mantenere artificialmente in vita anche un sistema disfunzionale come quello scelto dalla Fed per deprezzare il dollaro e spalmare nei quattro continenti il debito Usa sotto forma di bond del Treasury. Non possiamo contare su Pechino e nemmeno su Washington per uscire da questa crisi, visto che i due giganti dai piedi d’argilla si tengono in vita pressoché artificialmente l’uno con l’altro. Se c’è un’Europa politica ed economica – non solo burocratica e dei privilegi – questo è il momento di dimostrarlo.