L’avevamo annunciato due giorni fa e puntualmente la prima rappresaglia Usa nei confronti della Cina e della sua disinvolta politica di differenziazione e investimento si è materializzata. Il dipartimento del Commercio americano ha annunciato ieri di aver imposto dazi preliminari compresi tra il 10,90 e il 30,69 per cento su importazioni di tubi d’acciaio cinesi per complessivi 2,6 miliardi di dollari. La mossa era stata caldeggiata dai produttori e dai sindacati americani del settore secondo cui le importazioni di acciaio cinesi a prezzi bassissimi hanno portato alla perdita di migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti. Furiosa la reazione cinese giunta ieri mattina. «La Cina è molto preoccupata per questa vicenda – ha dichiarato un portavoce del governo cinese – e ci opponiamo con vigore a misure protezioniste del genere».
La prima battaglia della nuova guerra fredda sembra decisamente iniziata. Anche perché l’America, nonostante il dibattito sembri incentrato unicamente sulla riforma della sanità del presidente Barack Obama, comincia ad aver paura. E parecchia. Michael Barr, vice del segretario al Tesoro Timothy Geithner, ha dovuto ammettere che una nuova ondata di pignoramenti è alle porte nonostante lo schema statale di rinegoziazione dei mutui – ad oggi vi hanno aderito una cinquantina di entità creditizie che hanno soddisfatto però soltanto il 6 per cento degli aventi diritto mentre alcune non hanno rinegoziato nulla – e, sempre ieri, la nota analista Meredith Whitney ha messo in guardia il governo dal fatto che a causa dell’alto tasso di disoccupazione il prezzo delle case negli Stati Uniti potrebbe crollare di un altro 25 per cento. Se infatti il dato reso noto ieri dal governo ha visto scendere ulteriormente la richiesta di sussidi di disoccupazione, in molti temono che queste fluttuazioni non possano essere lette come un dato macro consolidato ma soltanto come un parziale aggiustamento in corso d’opera destinato a conoscere nuovi andamenti a “v”.
Un dato macro che invece fa paura è quello che vede il deficit commerciale Usa salire del 16,3 per cento, il massimo incremento mensile da 10 anni, passando da 27,49 a 31,96 miliardi di dollari sulla scia dell’aumento record del 4,7 per cento delle importazioni. L’import Usa avanza a 159,6 miliardi di dollari, sulla scia dell’aumento di 2,4 miliardi di dollari di importazioni di auto e di quello da 1,7 miliardi di dollari di beni di consumo, come farmaci, giocattoli, abiti e apparecchi televisivi: le importazioni di auto sono ai massimi da dicembre. A far salire le importazioni contribuisce anche l’incremento a 62,48 dollari al barile del prezzo del petrolio: il deficit commerciale con la Cina, poi, sale del 10,8%. Unico dato positivo, figlio della debolezza del dollaro, l’export Usa che avanza del 2,2 per cento a 127,6 miliardi di dollari. Insomma, il gigante barcolla ma proprio per questo non rinuncia ad assestare colpi al nemico-amico asiatico.
Chi invece ha capito che con la Cina è meglio fare affari piuttosto che guerra è la Gran Bretagna, visto che Londra e Pechino hanno stretto un accordo commerciale e di investimento da 500 milioni di dollari in buona parte destinato allo sviluppo di attività “verdi” e a bassa emissione da parte di industrie britanniche. Con il tasso di disoccupazione al 10 per cento, Gordon Brown ha deciso – su consiglio del ministro per il Business, Lord Mandelson, che proprio in questi giorni è a Pechino – che occorre sviluppare il commercio con le economie in rapido sviluppo come Cina e India. Tra gli accordi già chiusi quello che riguarda la Pilkington Group, branca britannica del gigante giapponese del vetro e la cinese Shanghai Yaohua Pilkington Glass per costruire una fabbrica in cui sviluppare vetro in grado di salvare ed economizzare energia negli ambienti. Inoltre il Britain’s Carbon Trust, ente para-governativo per lo sviluppo di un’economia a bassa emissione di inquinanti, ha chiuso un accordo con la China Energy Conservation Investment Corporation per permettere l’ingresso della tecnologia verde britannica sul mercato cinese.
Insomma, nel giorno in cui la Bank of England decideva a sorpresa di mantenere invariati i tassi allo 0,5, Londra metteva la freccia e superava in scioltezza le timidezze e le ingessature burocratiche della Ue e cercava altrove la chiave della ripresa. Ma, come già ricordato, loro hanno la Bank of England e la sterlina e possono decidere quale leva utilizzare per risanare e rilanciare. Nell’area euro, invece, i conti pubblici sono finiti fuori scala in quasi tutti i paesi e vi è “l’urgente necessità” che nei piani di bilancio per il 2010 i governi “predispongano e rendano note strategie ambiziose e realistiche di uscita dalle misure connesse con la crisi”. Lo ha chiesto la Banca centrale europea, nell’analisi trimestrale sull’andamento delle finanze pubbliche dei paesi membri pubblicata ieri con il suo ultimo bollettino mensile. Il risanamento dei conti pubblici dovrà iniziare “al più tardi con la ripresa economica e gli sforzi andrebbero intensificati nel 2011”. Inoltre, secondo la Bce nei paesi in cui si registrano elevati livelli di disavanzo-Pil o di debito pubblico-Pil, gli sforzi di risanamento “dovranno essere significativamente superiori al valore minimo di riferimento dello 0,5 per cento del Pil l’anno fissato dal Patto di Stabilità e di crescita: l’aggiustamento strutturale annuo – si legge – dovrebbe raggiungere almeno l’1 per cento del Pil”. La Bce ha poi avvertito che nell’area euro solo tre economie minori – Cipro, Lussemburgo e Finlandia – rispetteranno i criteri di Maastricht quest’anno e “tutti rischiano di scostarsi nel 2010”. Burocrati, nulla di più. Peccato che siano questi burocrati a doverci mostrare la via d’uscita dalla crisi. Auguri.