Nonostante il calo delle richieste di sussidi di disoccupazione, anche ieri dagli Usa sono giunte due notizie tutt’altro che incoraggianti. Prima, gli utili trimestrali del colosso statunitense delle spedizioni postali FedEx calano del 53% a 181 milioni di dollari, portando il fatturato a un arretramento del 20% a 8,01 miliardi di dollari. Seconda, prosegue ma meno vigorosa del previsto la ripresa del settore immobiliare. Ad agosto gli avvii di nuovi cantieri per l’edilizia abitativa sono cresciuti del’1,5% rispetto al mese precedente, secondo quanto riferito dal dipartimento del Commercio Usa, a 598 mila totali: stessa dinamica per la concessione di permessi per l’edilizia, aumentati del 2,7% su base annua a 579 mila totali.
Peccato che in media gli analisti prevedessero una crescita del 3,3% sull’avvio di nuovi cantieri e del 3,6% per le concessioni edilizie. Insomma, stagnazione. O recessione, chiamatela come volete. Cui, purtroppo, bisognerà fare l’abitudine se la Fed non deciderà di porre un freno alle politiche di spese a pioggia e denaro a costo zero. A dispetto di questo le Borse tirano, trainate però dal dollaro debole e dalle performance delle commodities: oro a quota 1030 dollari l’oncia, petrolio in salita grazie alle abili manovre dell’Ice e dei circuiti over-the-counter, palladio e altri metalli preziosi divenuti piatti prelibati per l’appetito dei grandi investitori, siano essi governi come quello cinese oppure hedge funds decisi a rastrellare il più possibile prima che sia troppo tardi. Ma si sa, ormai la Borsa è tutto tranne che un indicatore credibile dell’economia.
Come valutare, altrimenti, i balzi registrati dai titoli delle maggiori banche irlandesi, dopo che il governo ha rivelato i piani per la creazione di una “bad bank” in cui verranno fatte confluire tutte le attività più problematiche detenute dagli istituti di credito. Una discarica di asset tossici da 54 miliardi di euro, di cui tuttavia lo Stato si farà carico imponendo uno sconto del 30% circa alle banche – rispetto ai 77 miliardi totali a cui assommano le attività di questo tipo detenute da 5 istituti irlandesi – secondo quanto riferito dal ministro delle Finanze, Brian Lenihan.
La Allied Irish Banks, che rifilerà allo Stato asset per un ammontare nominale da 24 miliardi di euro, è balzata del 25% a 3,25 euro negli scambi mattutini sull’Irish Stock Exchange. La Bank of Ireland, che a sua volta sfrutterà il sistema per 16 miliardi, ha segnato un balzo dell’11% a 3,12 euro: a inizio anno nella fase più depressa delle quotazioni i loro titoli erano crollati rispettivamente a 0,27 e 0,12 euro. Il governo irlandese, di fatto, controlla già un 25% del capitale di entrambe, dopo che nei mesi scorsi aveva concesso aiuti diretti da 3,5 miliardi di euro ad ognuna: il mercato festeggia, evviva lo Stato interventista che scarica l’immondizia dei creatori di derivati facendo pagare il conto ai cittadini.
Ma attenzione, il rischio è duplice: da un lato appare più che probabile che la cifra non sia sufficiente e gli assets tossici siano molti di più, dall’altro lo Stato dovrà dar vita a un’altra manovra correttiva con tagli al welfare e altre misure impopolari innescando il rischio di tensioni sociali nel paese che ancora deve ratificare il Trattato di Lisbona. Altre strade non ce ne sono: o si va con la scure o si va in default sul debito, questa volta sul serio e con espulsione dall’euro e meccanismo di fluttuazione peg imposto da Francoforte. Alla faccia della “tigre celtica”.
D’altronde non solo in Irlanda le banche hanno giocato e continuano a giocare sporco. Che dire di Barclays, secondo istituto britannico, che ha letteralmente imbrogliato tutti vendendo 12,6 miliardi di assets tossici a una nuova compagnia, denominata Protium Finance e registrata alle Cayman, creata e gestita da due dirigenti della stessa Barclays che si sono dimessi mercoledì ad accordo compiuto? In soldoni, Barclays ha garantito a Protium un prestito decennale da 12,6 miliardi per acquistare la sua spazzatura, operazione che permette al colosso bancario di “disconoscere” quegli assets e garantirsi un pesante rafforzamento del core tier 1, attualmente al 8,8% ma da tutti visto a fortissimo rischio se si fossero presentate nuove svalutazioni: la cessione, chiamiamola la partita di giro, garantisce invece uno scudo contro eventuali crolli del mark-to-market.
Sembra il gioco delle tre carte che i truffatori fanno nelle stazioni, invece è altissima strategia bancaria e finanziaria. Poveri noi. E se l’Irlanda piange e la Gran Bretagna singhiozza, l’Italia ha poco da ridere. Se infatti «dall’economia mondiale giungono segnali concreti che la caduta si è arrestata», il nostro paese rischia però di impiegare dieci lunghi anni per recuperare la ricchezza persa a causa della crisi. Lo ha affermato ieri Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, il cuore operativo della politica monetaria dell’Eurozona, in un’intervista al settimanale L’Espresso in edicola oggi.
In più, per tutti i paesi c’è il problema del peggioramento dei conti pubblici. Per l’Italia è previsto un debito in prossimità del 120% del Pil nel 2010, e non potendo sfruttare le privatizzazioni come nel dopo crisi del 1992, l’unica strada è «la riduzione delle spese, che finora non è stata presa».
Con tutto il rispetto, non aspettavamo Bini Smaghi, abbiamo dato la cifra del 120% almeno due mesi fa. E, nel mio piccolo, mi permetto anche di offrire una possibile via d’uscita, apparentemente impossibile nel paese meno riformista d’Europa: si dia vita a una commissione per la riforma del mercato del lavoro sulla falsa riga di quella presieduta dal professor Peter Hartz in Germania e voluta fortemente dall’ex cancelliere Schroeder. Solo se si libera il lavoro dai mille lacci che lo imbrigliano e dalla troppa burocrazia che lo soffoca si può pensare di ripartire. In tutti i settori.