L’Ocse ci informa che la recessione potrebbe finire prima del previsto, anche se la ripresa sarà lenta. Bene. Peccato che dai mercati arrivino segnali un tantino più preoccupanti. L’oro, bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi, ieri ha infatti registrato un aumento del 2,3 per cento toccando il picco massimo dal 18 marzo scorso a quota 984,30 dollari l’oncia e gli analisti parlano a chiare lettere del fatto che l’instabilità che colpirà i mercati e la debolezza del dollaro potrebbero portare entro l’anno il metallo prezioso a toccare quota 1000 dollari l’oncia. Come leggere, poi, le parole del segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, che alla vigilia del G20 ha detto a chiare lettere che è troppo presto per bloccare le politiche di stimolo fiscale da parte dei governi se non come un segnale di tensione per i mesi a venire? Ma per capire quanto la crisi sia profonda negli Usa non serve ricorrere ai dati sulla disoccupazione già citati nei giorni scorsi, basta pensare allo stillicidio di piccole banche che sta colpendo il paese profondo, l’America reale e non quella di Wall Street. A meno che non vengano modificate anche le regole contabili sui crediti non performing, che prevedono la cancellazione dei crediti dopo pochi mesi di morosità, non vi è infatti dubbio che molte delle 416 banche in difficoltà presenti nella lista della Federal Deposit Insurance Corporation andranno presto a fare compagnia alle 84 banche già chiuse d’autorità dall’inizio di quest’anno, un numero che è secondo solo a quello del 1992, quando la crisi sistemica delle Saving & Loans toccò il suo massimo. Anche in Gran Bretagna si corre ai ripari, visto che la Fsa – l’ente di controllo della City – ha richiesto e ottenuto dalla semi-privatizzata Lloyds Tsb i piani riguardo l’aumento di capitale senza ulteriori iniezioni di denaro pubblico: è in corso uno stress test che ci dirà se la disgraziata banca sarà in grado di claudicare con la sua unica gamba, l’altra è resa inutilizzabile dal macigno rappresentato dall’inglobata Hbos oppure se lo Stato – cioè i contribuenti – dovranno ancora mettere mano al portafoglio, scelta che la Bank of England ha già giudicato pericolosa per quanto riguarda il debito pubblico. C’è poi il problema globale legato all’eurozona: il Fondo Monetario Internazionale ha stimato infatti che le istituzioni finanziarie Ue hanno scaricato solo il 20% dei 900 miliardi di debiti tossici che hanno in pancia e devono ottenere almeno 375 miliardi di capitale fresco rispetto ai 275 delle banche Usa. Gli esperti della Bce, d’altronde, hanno parlato chiaro: ci sono almeno altri 203 miliardi di euro di svalutazioni da fare entro l’anno nei bilanci delle banche Ue e questo nonostante proprio la Banca centrale europea abbia recentemente iniettato la cifra monstre di 442 miliardi di euro nel sistema per rilanciare il credito. Con uno sfondo simile appare chiaro a tutti che le sorti di stabilità politica della Germania, alle prese con le prossime elezioni, sono qualcosa che trascende il mero dato di politica interna: il piano della bad bank statale voluto dalla Merkel, piaccia o meno la possibilità di scaricare gli assets su un piano ventennale di fatto off-balance sheets, appare fondamentale per poter uscire dalla situazione di emergenza latente che quella bomba bancaria rappresenta per l’economia. Un governo instabile, diviso, incapace di una maggioranza che possa lavorare speditamente a un piano di intervento – con magari la Linke pronta a sfruttare la situazione con entrate populiste a gamba tesa contro i “ricchi” – sarebbe una sciagura. Occorre sperare in una coalizione che vede insieme Cdu e Liberali, magari con l’appoggio dei Verdi, che si muova senza indulgere in troppe discussioni verso un enorme stress test bancario e verso la creazione dell’entità in cui scaricare a un valore di mark-to-market molto ritoccato tutte le tossicità che ancora inquinano i bilanci bancari. D’altronde è l’Ue a chiederlo, anche se in Italia l’Abi ha già detto no definendo questa operazione di trasparenza
 “troppo intrusiva”.  Da giorni, anzi settimane, parlo della Cina come grande player che attende al varco gli ulteriori errori strategici di Europa e Usa per guadagnare terreno e ruolo egemonico dopo aver chiuso accordi per indicizzare gli scambi con tutti i paesi dell’Asia in yuang e non in dollari e aver fatto partire la rivoluzione verde per non essere più ostaggio del petrolio. Il fatto che ieri i mercati europei abbiano conosciuto, almeno fino all’ora di pranzo, un piccolo “rimbalzo del gatto morto” è proprio perché in Cina la Borsa aveva chiuso su di quasi il 5 per cento: chi sa investe dove si deve investire, la crisi sta creando enormi possibilità di sviluppo e crescita se si sanno leggere gli indicatori. Il fatto poi che Pechino abbia pressoché raddoppiato le riserve monetarie rende tutto più semplice, non avendo competitori ma bensì camerieri come l’Europa o clienti fedeli come gli Usa del debito monstre. Si continua a parlare, si chiacchiera di tagli ai bonus dei manager ma nessuno sembra voler guardare davvero in faccia la realtà e i problemi che devono essere affrontati da subito. Il tempo passa e la situazione si complica sempre di più.