Prima di tutto, onore a Francesco Giavazzi che ieri, nell’editoriale di prima pagina del Corriere della Sera, proponeva al pubblico della grande stampa nazionale il tema della crisi islandese e i timori che questa sta creando in Europa in caso di un possibile crac sul debito pubblico.

Averne di economisti e giornalisti di questo coraggio e lungimiranza. Questo ci impone, però, di andare ancora più a fondo e capire, al di là degli errori compiuti dai governi e della varie istituzioni economiche e monetarie in questi anni, chi stia per lanciare il vero e proprio attacco all’Europa e alla sua stabilità: le agenzie di rating.

Prima di tutto va sottolineato che le tre maggiori agenzie di rating (denominate, “le tre sorelle”) sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile.

Inoltre, questi rigidi guardiani del mercato e della politica, capaci con un loro downgrade di decidere le sorti di paesi e popoli, hanno partecipazioni dirette – anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi – delle più grandi corporations internazionali e delle più grandi banche internazionali, le stesse coinvolte nelle operazioni di finanza derivata e responsabili del disastro da cui non riusciamo a uscire.

La Standard & Poor’s(S&P), ad esempio, è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. Questa major, proprietaria anche dell’influentissimo settimanale Business Week, nel 2005 vantava un fatturato di qualcosa come 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari.

All’interno del board direttivo, dal 2006 a oggi, si possono trovare membri del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti), della ConocoPhillips (petrolio ed energia), della “Transition Advisory Committee on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca, il presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra, il presidente della Coca Cola Co, alti responsabili della Credit Union del FMI-World Bank, dirigenti di primo livello della British Petroleum, il presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare), il direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre), il presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay), il direttore dell’IBM, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council (l’apparato dell’antiterrorismo).

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E che dire di Fitch di New York, sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi, di cui dal 2005 la multinazionale americana delle comunicazioni Hearst Corporation detiene il 20% del pacchetto azionario. Anche in questo caso, negli ultimi quattro anni, la sfilata di potenti all’interno del suo board è di tutto rispetto. Dirigenti della Renault e della Banque Suez, della banca Lazard Freres, della JP Morgan & Cie, della Cholet-Dupont (finanza), della Fremapi (metalli preziosi), uomini di Kommerzbank, della Ubs Warburg, di Paribas e della Nestlè.

 

Infine, l’agenzia di rating Moody’s, sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York, gigante che tra i suoi rappresentanti annovera, e ha annoverato, alti dirigenti della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi), della ING Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), della Pfizer e della Exxon Mobil, di Citigroup, della multinazionale chimica Herculer, della KPMG (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che insieme alla Freddie Mac deteneva quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano e che George W. Bush ha dovuto nazionalizzare per evitare il crollo totale dei mercati e la tragedia a livello globale).

 

Non male è, visto che questi signori dovrebbero in maniera seria, rigorosa, lontana da ogni condizionamento dare giudizi su titoli, azioni, obbligazioni ma anche commodities e soprattutto stabilità e affidabilità degli Stati. E, invece, grazie agli interessi che devono difendere in nome del profitto a tutti i costi, queste agenzie non si sono limitate a sbagliare il 70% degli out look che hanno presentato negli anni, ma hanno contribuito alla crescita di quella finanza strutturata over-the-counter, che nel dicembre di cinque anni fa vedeva il totale del valore nozionale di tutti i derivati finanziari otc, cioè quelli che non appaiono sui bilanci delle banche e finanziarie che li sottoscrivono, raggiungere i 284.819 miliardi di dollari, cioè sette volte il Pil mondiale.

 

Secondo l’ente statale di controllo sul denaro circolante negli Usa, il Controller of the Currency, a fine giugno 2006 la JP Morgan vantava da sola un valore nominale di derivati otc pari a 57.300 miliardi di dollari (cinque volte il Pil americano) e la Citigroup vantava 25.327 miliardi di dollari in derivati otc. E loro uomini sedevano nei board di due delle tre sorelle. Le stesse che oggi vogliono devastare l’Europa con i loro downgrade a orologeria: quella che può suonare come una denuncia bolscevica, è l’esatto contrario.

 

Il libero mercato non può accettare commistioni di potere del genere nel cuore di chi è chiamato a emettere giudizi vincolanti sui soggetti che popolano il mercato stesso: è una questione di libertà e chiamiamolo fair play, altrimenti è come giocare una partita di calcio avendo un proprio amico fraterno come arbitro e la squadra avversaria costretta a giocare bendata.

 

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Questo è il capitalismo distorto che ci ha portato alla crisi globale iniziata due anni e mezzo fa e il suo perpetuarsi non può che creare danni ulteriori in un momento di grande fragilità generale: certamente i governi greci degli ultimi anni hanno colpe enormi, così come quelli italiano, tedesco e francese visto che per tutti sarà difficile rifinanziare sui mercati il debito pubblico a scadenza 2010, ma questo non può significare il dominio incontrastato di soggetti che tutto sono tranne che indipendenti, come avete potuto constatare da soli leggendo i curricula di chi ne compone i consigli direttivi.

 

Serve una riforma seria, non quella seguita a Basilea 2, che tolga tutto questo potere alle agenzie di rating, serve un sistema di vigilanza politico-economico che vede i controllori essere soltanto una casta privilegiata dei controllati. Se invece di perdere tempo con le regolamentazioni degli hedge funds, che sulla crisi hanno pesato meno del 5%, all’ultimo G20 si fosse parlato di questo e di una seria riforma di quei pozzi neri che sono le dark pools dei circuiti over-the-counter, forse si sarebbe fatto un serio primo passo per uscire dalla crisi. Ma i governi, spesso, hanno tutto l’interesse a mantenere le cose come stanno. Avendo loro uomini proprio in quei boards of directors.