Svalutare, svalutare, svalutare! Èquesto il motto e la parola d’ordine di metà abbondante dei grandi players mondiali in questi giorni di nuova incertezza globale. Lo fanno il Giappone, gli Usa, l’Ue (e, a proposito di Unione Europea, come anticipato da ilsussudiario.net, ieri Moody’s ha applicato un downgrade di un notch sul rating spagnolo portandolo ad Aa1, mentre il governo irlandese ha dovuto ammettere che il costo reale del salvataggio di Anglo Irish Bank ammonta a 34 miliardi di euro nel worst case scenario e il deficit ha raggiunto il 32% del Pil. Di più, come modestamente detto dal sottoscritto, ieri il ministro delle Finanze irlandese, Brian Lenihan, ha dovuto ammettere che i detentori di alcune obbligazioni bancarie di Dublino subiranno haircut sul rendimenti): la Cina, si sa, non ne ha bisogno, visto che la sua rivalutazione dello yuan è nei fatti una pantomima.

Peccato che alcuni altri paesi, tra cui Brasile, Messico, Perù, Corea, Taiwan, Sud Africa, Russia e, ultima all’appello, la Polonia siano stanchi di subire le angherie monetarie dei big e stiano intervenendo sul mercato dei cambi per evitare che le loro valute si apprezzino troppo e troppo in fretta e stiano studiando opzioni per bloccare sul nascere inflows potenzialmente distruttivi.

Per Peter Attard Montalto di Nomura, la politica di quantitative easing della Fed e di altre banche centrali sta ponendo in incubazione un serio conflitto: «Si sta forzatamente spingendo denaro nei fondi obbligazionari dei mercati emergenti e in maniera minore nei fondi di equity. Si sono visti veri e propri muri di denaro entrare in queste nazioni. Sono preoccupato dal fatto che ormai siamo sulla cuspide di una corsa competitiva verso il basso».

Il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, per tutto il mese scorso ha ripetutamente denunciato il fatto che il suo paese stesse fronteggiando una “guerra valutaria” con fondi che inondano il mercato obbligazionario locale per trarre vantaggio dai rendimenti dell’11%, enormemente più alti che in qualsiasi altro paese occidentale. Per Goldman Sachs gli inflows netti verso l’Asia corrono ormai a un livello annuale di 520 miliardi di dollari negli ultimi quindici mesi, mentre quelli verso l’America Latina sono a quota 74 miliardi. E siccome intervenire per bloccare questa messe di denaro può creare svariati tipi di problemi, pare ormai alle porte una politica di “controlli diretti del capitale”.

D’altronde, il real brasiliano è stata una delle monete più forti negli ultimi due anni, aggravando l’account deficit corrente che viaggia ormai verso il 2,5% sul Pil. Oltretutto, il tasso di cambio apprezzato va a colpire l’industria brasiliana, specialmente le aziende che competono con l’import cinese. Ian Stannard, esperto monetario a BNP Paribas, delinea così lo scenario: «Tutti quanti sono spaventati dal fatto che la crescita globale stia svanendo e quindi stanno provando a usare i tassi di cambio per proteggere l’export. Il Brasile, nei fatti, ha perso tempo guardando gli asiatici che intervenivano».

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Il Brasile, d’altronde, ha utilizzato la tassazione per rallentare gli inflows di capitale, ma l’attrattività dei super-rendimenti e la nomea di paradiso delle commodities hanno fatto evaporare qualsiasi piano di difesa. La collocazione di azioni del gigante petrolifero Petrobas per 67 miliardi di dollari si è rivelata un vero e proprio magnete per i fondi, costringendo la Banca centrale a comprare circa 1 miliardo di dollari di obbligazione straniere al giorno nelle ultime due settimane: un’opzione difficile da sterilizzare e che rischia di mettere il turbo all’inflazione.

 

Ma tant’è, siamo alla legge della giungla per sopravvivere: la Bank of Japan è stata costretta a intervenire per bloccare l’apprezzamento record dello yen, anche per le forti pressioni compiute in tal senso da Toyota, Sharp, Sony e altri grandi esportatori. La piccola ma ricchissima Svizzera ha speso 80 miliardi di franchi svizzeri in un solo mese per cercare di bloccare il volo della sua valuta rispetto all’euro, operazione resa inutile – e anzi foriera di grandi perdite – dalle forze del mercato dei cambi globale. Capite bene che se la Fed deciderà davvero per una seconda ondata di quantitative easing, i rischi connessi a questa messe di liquidità a costo zero immessa nel mercato saranno davvero gravi.

 

Non la pensa così quel mago di Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fmi, il quale ritiene che «non affrontiamo un grosso rischio, nonostante quanto venga scritto». Insomma, il mondo ha la febbre, ma al Fondo Monetario minimizzano: speriamo abbiano ragione. Il problema è che la vera bomba potrebbe essere stata innescata, tanto per cambiare, proprio dai regolatori che invece vorrebbero ergersi ad artificieri del mercato, in particolare dei derivati.

 

Già, perché grazie ai ridicoli requisiti di derivatives-clearing posti in essere dalla legge di riforma Dodd-Frank, il mercato dei bond – il main issue del momento, con i rischi di bolla che questo comporta – potrebbe essere stato aperto ai traders che operano in alta frequenza, gli stessi che potrebbero aver causato il flash-crash che lo scorso maggio fece crollare Wall Street del 9% in pochi minuti. In base a questi requisiti, infatti, alcuni prodotti derivati, come i cds su obbligazioni corporate, dovranno essere gestiti da clearing houses – il nome anglosassone nella figura bancaria della stanza di compensazione – centralizzate per contrattati su swaps exchanges, questo – nelle intenzioni – per ridurre il rischio di controparte e rendere il mercato dei derivati più trasparente.

 

Nessuno, però, ha pensato alle conseguenze di questa scelta: come al solito, quando i governi intervengono sui mercati o li complicano o fanno direttamente disastri. Nel mercato dei credit default swaps, evolutosi prima della riforma Dodd-Frank, molti swaps erano compiuti direttamente tra due parti, molto spesso una delle quali o entrambi grandi broker-dealer. Per esempio, un hedge fund potrebbe contattare Goldman Sachs per comprare protezione su un’obbligazione, ad esempio, di Ford. Normalmente, Goldman o chi per essa si poneva hedge sul rischio approcciando un altro broker-dealer comprando protezione sugli stessi bonds. L’assenza di trasparenza dei prezzi sui mercati spesso consentiva a Goldman o altri di ottenere una prezzatura migliore rispetto a piccoli investitori sul medesimo strumento di protezione e di monetizzare un po’ sul differenziale tra lo swap che ha venduto e lo swap che ha comprato.

 

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A livello basilare, i grandi di Wall Street erano i vincitori senza competizione di questo mercato. Infatti, una delle ragioni per cui le grandi firms si sono lanciate così pesantemente sul mercato dei derivati nella scorsa decade risiedeva proprio nella “troppa” trasparenza del mercato obbligazionario, dopo che la Sec aveva approvato la proposta della National Association of Securities Dealers di monitorare le contrattazioni di obbligazioni corporate attraverso un sistema elettronico. L’idea di fondo di questa azione era quella di incrementare il grado di fiducia degli investitori e ridurre il profitto garantito dalle informazioni di arbitrato per i giganti di Wall Street.

 

Il rovescio della medaglia, però, è stato proprio il fatto di aver spinto la gran parte della contrattazioni verso l’opacità dei derivati. Il trasferimento voluto dalla legge Dodd-Frank dello swap trading dai circuiti over-the-counter (non regolamentati) al circuito regolamentato di contrattazione potrebbe rendere più trasparente il mercato, ma questa maggiore trasparenza potrebbe spingere gli hedge funds a sfruttare le inefficienze del nuovo sistema di contrattazione. Invece di far leva sull’opacità e le informazioni dell’arbitrato, gli hedge funds cercheranno di trarre vantaggio dalla velocità di calcolo, dall’adattabilità degli algoritmi e dalla sofisticatezza dei computer per spremere profitti da derivati controllati nella clearing house e poi trattati sul circuito regolamentato: in parole povere, stiamo introducendo la contrattazione ad alta frequenza nel mercato dei derivati.

 

Parafrasando Lucio Battisti, sarebbe meno rischioso viaggiare a fari spenti nella notte. E con la nebbia dell’Oltrepò pavese in gennaio, aggiungo io. I mercati, oggi, sono infatti più liquidi ma anche più volatili e nonostante il dibattito sia ancora aperto, in molti pensano che il flash-crash dello scorso maggio sia stato così pesante proprio per il ruolo che in esso hanno giocato le contrattazioni ad alta frequenza. Sia così o meno, ci fosse anche un solo, minuscolo, singolo dubbio, questo dovrebbe imporre cautela prima di lanciarsi in un passo simile, visto che non solo non abbiamo una conoscenza piena del ruolo dell’alta frequenza sui mercati ma, soprattutto, siamo totalmente all’oscuro di cosa potrebbe accadere applicando quel tipo, rischiosissimo, di trading al mercato dei derivati.

 

Proviamo a immaginare, simulandolo, un potenziale flash-crash sul mercato dei cds. Poniamo il caso che i traders ad alta frequenza siano divenuti fornitori di liquidità per il mercato, comprando e vendendo protezione sulle obbligazioni. A questo punto, i soggetti classici broker-dealer hanno smesso di adempiere a questo ruolo, in parte perché i loro profitti sono stati di molto erosi dalla nuova trasparenza del mercato. Un giorno, un evento da qualche parte nel mondo – attentato terroristico, un incidente a un impianto nucleare, un’inondazione, un default sovrano, un colpo di Stato – crea un effetto grilletto sugli algoritmi di alcuni HFT shops (aziende, a volte minuscole come la Able Alpha di New York, che lavorano nel settore dell’High-Frequency Trading, da qui l’acronimo) correlati affinché comprino più protezioni su una svariata gamma di obbligazioni.

 

Questo innesca la medesima reazione su altri programmi HFT affinché smettano di vendere, il che comporta più acquisti. I prezzi dei cds salgono, le clearing house che gestiscono questi prodotti cominciano a domandare più collaterale a tutti per riflesso ai prezzi più alti, innescando a loro volta una corsa al contante da parte tutto il mercato. Nel frattempo, le operazioni di gestione del rischio poste in essere da investitori istituzionali si rendono conto dei prezzi dei cds che stanno salendo, segnale che viene letto come il fatto che le obbligazioni stanno per diventare un guaio: il mercato obbligazionario corporate fa partire la svendita e ancora più compratori di cds entrano nel mercato.

 

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Il mercato del credito a medio termine si congela a causa del fatto che il denaro derivante dal mercato smette di garantire credito verso quelli che paiono diventare detentori di prestiti corporate sempre più rischiosi. A quel punto la clearing house osserva che alcuni partecipanti nel mercato non stanno facendo bene sulle calls al collaterale e cominciano così a chiudere le loro posizioni. Gli esterni si spaventano per questa mossa e cominciano a pensare che la clearing house abbia problemi di solvibilità, scatenando una corsa proprio sulla clearing house.

 

Con nessuno in grado di processare le contrattazioni se non la stessa clearing house apparentemente insolvente e con tutte le altre alternative rese illegali dalla legge Dodd-Frank, i mercati del credito vanno in tilt completamente. Pensate che con la messe di denaro e i rischi di default reale che il mercato dei cds comporta, possiamo permetterci di correre il rischio di testare la nostra capacità di gestire un flash crash nel mercato obbligazionario? O, almeno, quando hanno scritto la loro splendida e populisticamente spendibile leggina, Dodd e Frank si saranno posti domande al riguardo?

 

Ne dubito. Fortemente. Poi, a disastro combinato, si chiedono come sia potuto capitare: la crisi globale non ci ha veramente insegnato nulla.