Così parlo Francoforte: «Le misure non convenzionali di politica monetaria adottate dalla Bce in risposta alle acute tensioni nei mercati finanziari, che sono di natura temporanea, saranno gradualmente rimosse in linea con il miglioramento dei mercati finanziari e dell’attività economica». È quanto si legge nel Bollettino mensile di ottobre della Bce, in uno studio dedicato alla risposta europea alle varie fasi della crisi, durante la quale, si sottolinea, le banche centrali «hanno affrontato sfide senza precedenti».
La Bce, dal canto suo, «ha dimostrato la capacità di reagire con prontezza, flessibilità e decisione» all’evoluzione della crisi. Insomma, si danno da soli la pacca sulla spalla: ma si sa, chi si loda s’imbroda. Insomma, mentre la Fed ha ormai ufficializzato la sua intenzione di lanciare un nuovo programma di stimolo all’economia attraverso un piano di quantitative easing, la Bce conferma il suo rigore e la volontà di ritirare le misure di supporto. Un bell’azzardo, visto lo stato di salute di molte banche continentali.
L’Eurotower ha inoltre affrontato il tema della ripresa in generale: «I paesi che negli anni passati hanno subito perdite di competitività devono procedere a riforme strutturali, così come quelli che soffrono di disavanzi di bilancio o commerciali elevati». Uno dei versanti su cui è maggiormente necessario intervenire è quello del mercato del lavoro: «Eliminare le rigidità del mercato del lavoro e potenziare la crescita della produttività favorirebbero ulteriormente il processo di aggiustamento di tali economie». Inoltre, «stimolare la concorrenza nei mercati dei beni e soprattutto dei servizi agevolerebbe la ristrutturazione nel settore industriale e incoraggerebbe l’innovazione e l’adozione di nuove tecnologie. Profonde riforme risultano particolarmente necessarie nei paesi che in passato hanno subito una perdita di competitività o che al momento soffrono di disavanzi nei conti pubblici e disavanzi esterni elevati».
Quindi, che fare? Per la Bce le manovre finanziarie 2011 di molti Paesi dell’area euro «devono riflettere l’impegno a conseguire un risanamento fiscale ambizioso» e adottare «piani di risanamento pluriennali credibili» con un’azione correttiva «immediata, ambiziosa e convincente». Per l’istituto centrale europeo, poi, le prospettive delle sedici economie dell’euro corrono dei rischi e «permangono timori riguardo al riemergere di tensioni nei mercati finanziari». Per quanto riguarda la crescita economica, rileva la Bce, gli ultimi indicatori segnalano «una moderazione nella seconda metà dell’anno sia nell’area euro sia su scala mondiale», anche se «permane la dinamica di fondo positiva della ripresa dell’area euro».
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Nel bollettino si parla anche in modo specifico della realtà italiana. Il nostro Paese, assieme alla Spagna, nel giudizio della Bce arranca sul recupero di utilizzo delle capacità produttive nell’industria rispetto alle cadute causate dalla crisi globale: i due Stati risultano indietro rispetto al sentiero finora compiuto in media nell’area euro, avverte la Bce in un riquadro di analisi a margine del bollettino. «Fra i paesi dell’area per i quali si dispone di dati, il Belgio, la Germania, Malta e l’Austria presentavano tutti tassi di impiego della capacità superiori o abbastanza vicini alle rispettive medie storiche, dopo aver recuperato circa i due terzi del calo registrato dal massimo al minimo del grado di utilizzo. Spagna e Italia al contrario hanno recuperato finora soltanto un terzo circa della flessione massimo-minimo».
Guardando alla media dell’area valutaria «il tasso di utilizzo della capacità nel settore manifatturiero era pari al 77% nel luglio 2010, un livello di 8 punti percentuali superiore al minimo toccato un anno prima, avendo recuperato circa la metà della flessione fra massimo e minimo. Malgrado questa marcata ripresa il grado di utilizzo della capacità resta al di sotto della sua media di lungo periodo dell’81%». Insomma, le solite parole al vento: basta cambiare un paio di frasi e aggiornare due dati e i comunicati dell’Eurotower sembrano fotocopie: d’altronde, da gente che poco prima del crollo di Lehman Brothers aveva rivisto al rialzo i tassi per timor inflattivi non è che ci si possa aspettare molto.
Qualcosa di più, invece, lo ha detto Hans Blommestein, capo del dipartimento obbligazionario e debito pubblico dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica, secondo cui «gli investitori nel mercato obbligazionario dell’eurozona stanno utilizzando istinti animali nel giudizio rispetto ai rischi di default, creando le condizioni in base alle quali i mercati finanziari potrebbero costringere le nazioni più deboli a eccessivi tagli di budget, opzione quest’ultima che potrebbe ulteriormente minare la già debole ripresa. La psicologia dei mercati è molto negativa e non necessariamente basata sui fatti. Il mercato improvvisamente percepisce che il debito di alcuni stati rappresenta un rischio, quindi domanda rendimenti più alti, situazione che crea grosse difficoltà di finanziamento per le nazioni».
Ma il rischio obbligazionario è anche un altro: un minimo aumento dell’inflazione, infatti, potrebbe scatenare una correzione sul mercato dei bond e, per Roman Scott, direttore della Calamander Capital, «di fatto far esplodere la bolla che già si sta creando nel mercato obbligazionario, un comparto che io vedo a fortissimo rischio e che non mi fa dormire la notte. La gente continua a comprare bonds, ma questo ha senso soltanto se li si detiene fino a maturazione, sono moltissimi invece quelli che non si comportano così: i prezzi di quei bonds, che si muovono in controtendenza con i rendimenti, potrebbero crollare se un aumento dell’inflazione portasse a una crescita dei tassi d’interesse».
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Certo, la quasi certezza che la Fed comprerà grossi lotti di bonds all’interno della sua nuova politica di quantitative easing fa ingolosire gli investitori, ma il rischio di bolla resta reale, visto che i tassi non potranno restare a questi livelli per molto ancora e soprattutto perché gli Usa stanno per affrontare la seconda ondata di crisi subprime, essendo divenuto impossibile legalmente (lorsignori, oltre ad aver concesso mutui a clienti potenzialmente incapaci di ripagarli, non hanno nemmeno approntato i documenti necessari per riottenere l’immobile e la legge-truffa che volevano far passare è stata bloccata dal “no” di Barack Obama in persona) dar vita alla politica di ripossessione delle case di mutuatari inadempienti: Bank of America ha già ufficialmente rinunciato a procedere al pignoramento di immobili in tutti gli Stati Uniti e così saranno costrette a fare altre banche e finanziarie, le più piccole delle quali andranno incontro al fallimento.
Il costo di questa situazione a oggi appare incalcolabile, ma in molti temono che non basterà nemmeno l’inondazione di dollari annunciata dalla Fed per tamponare la falla. A quel punto, il cortocircuito sarà davvero totale. Ma non ditelo alla Bce, a Francoforte preferiscono la politica ciclostile dei loro bei comunicati.