Dall’Asia all’Irlanda, ecco il nostro viaggio di oggi tra un quadro pessimistico e uno di grande speranza. Cominciamolo. L’America ha deciso: il nemico ora è il Pakistan. Se da un lato, ovvero quello meramente politico-economico, è Pechino con la sua politica di rialzo dei tassi e yuan debole a trasformare le elezioni di mid-term in una guerra senza frontiere a colpi di accuse di tradimento dell’interesse nazionale e di appeseament verso la Cina, il fronte della guerra al terrore ha il suo nuovo uomo nero.

Mentre il New York Times conferma le trattative in corso tra statunitensi e talebani per uscire dal pantano afghano ma, soprattutto, per garantirsi lo sfruttamento delle “rare earths” (fondamentali per l’industria bellica, quella informatica e quella energetica, tra cui l’auto ibrida e di fatto oggi monopolio cinese) di cui il sottosuolo del paese è ricco, il sito di Business Recorder fa capire che la storica politica di alleanza tra Washington e Pakistan, unico paese musulmano dotato di arma nucleare, starebbe per finire. L’America ha finalmente capito che la centrale mondiale del terrore è laggiù? Ha capito che l’Isi, il servizio segreto, è colluso quando non apertamente infiltrato da terroristi? Ora che non ha più bisogno di Musharraf in chiave anti-talebana, Washington cerca il capro espiatorio dove in effetti rischia di trovare un colpevole reale?

No. Almeno, non solo. Al centro della vicenda e delle tensioni statunitensi, ci sarebbe l’accordo per il gasdotto Iran-Pakistan, alla cui costruzione entrambe le parti hanno oltretutto già invitato caldamente il gigante russo Gazprom a partecipare. Nemmeno a dirlo, quest’ultimo ha già reso noto il proprio interesse per la costruzione di facilities per lo stoccaggio energetico in Pakistan. La richiesta, nei fatti, sarebbe già stata ufficializzata durante un incontro tenutosi il 22 settembre scorso nel corso della Pak-Russia InterGovernmental Commission: sarebbe stata il ministro dell’Economia e delle Finanze pakistano, Hina Rabbani Khar, a invitare Gazprom a partecipare allo sviluppo del gasdotto iran-pakistano.

D’altronde, Pakistan e Gazprom hanno già siglato un memorandum di intenti per la gestione di 950 chilometri di pipeline, anche se le parti devono ancora entrare nei dettagli e trovare un accordo finale per la costruzione del gasdotto che dovrà portare il gas dall’Iran al Pakistan. Inoltre, gli stessi presidenti russo e pakistano, Dimitry Madvedev e Asif Ali Zardari, avrebbero parlato lungamente della questione durante il loro incontro in Russia nell’agosto di quest’anno: in quell’occasione fu decisa la convocazione di un meeting bilaterale tra i ministri delegati al petrolio dei due paesi per discutere i dettagli della proposta.

Stando a fonti informate sulla questione, «il ministro al petrolio pachistano Naveed Qamar dovrebbe accompagnare il presidente Zardari nel corso del suo prossimo viaggio in Russia». Dal canto loro, Pakistan e Iran hanno già firmato un accordo di garanzia sovrana rispetto al progetto, il quale sarà finanziato attraverso una partnership pubblico-privato che vedrà l’esborso di Islamabad quantificato a circa 1,65 miliardi di dollari. Inoltre, i due paesi hanno siglato il cosiddetto Gas Sale and Purchase Agreement (Accordo su vendita e acquisto di gas) per l’import di 750 milioni di piedi cubi di gas naturale al giorno, con una previsione di incrementare il volume di gas a 1 milione di piedi cubi.

 

Il volume di gas importato rappresenta circa il 20% dell’attuale produzione di gas pakistana e il rifornimento si baserà su un contratto di 25 anni, rinnovabile per altri cinque: tutto il gas importato sarà dedicato nel settore power. Il gas iraniano supporterebbe approssimativamente 5mila megawatt di potenza generata, il cui risultato sarà un risparmio energetico annuale comparabile a quello garantito dai carburanti alternativi: stando a piani finora stimati, la prima fornitura di gas dovrebbe giungere alla fine del 2014.

 

Insomma, l’influenza di Stati Uniti e di Israele nell’area rischia un pesante ridimensionamento visto che un triumvirato come Pakistan-Iran-Russia non pare avversario “leggero” con cui confrontarsi, i rapporti sull’orlo del collasso tra Gerusalemme e la Turchia e la benedizione che la Cina darebbe al nuovo assetto di equilibrio geopolitico ed energetico, intenzionata com’è a trattare con Mosca per una sorta di protettorato occulto della Mongolia, paese ricchissimo di materie prime che a fine anno inaugurerà la sua Borsa valori quotando aziende a dir poco appetibili per i giganti del disavanzo e del surplus. Ce ne sarebbe abbastanza per un bel quadro di guerra asimmetrica e a bassa intensità, visto che i mercati danno sempre più per certo un attacco in grande stile di Israele contro il Libano, la cui ultima provocazione – ovvero la visita di Ahmadinejad benedetta da Hezbollah – potrebbe fornire un comodo pretesto alle intenzioni inconfessate di Gerusalemme.

 

Uno spostamento di equilibri nella “Heartland” come quello prefigurato prima, sarebbe inoltre perfetto, fornendo l’alibi del rischio di corsa all’armamento nucleare iraniano garantito dalla nuova partnership strategica (con due paesi, di cui uno islamico, dotati di testate nucleari) e capace, con voci come quella pachistana, cinese e russa, di rendere vane sanzioni e controlli. Insomma, i motori cominciano a rombare e l’inarrestabile corsa dell’oro (l’ultimo numero di Investor Chronicles, rivista inglese di finanza e investimenti con 150 anni di tradizione, in copertina strillava “Buy gold”) lo testimonia.

 

Ma ora cambiamo scenario, saliamo su immaginario aereo e dopo una decina di ore di volo ci troviamo a Dublino, epicentro della nuova ondata di crisi legata alle banche e al debito sovrano, almeno stando alle società di rating. Già, perché a dispetto dei molti downgrade minacciati ed effettivamente compiuti dalle “tre sorelle”, il surplus commerciale irlandese del mese di luglio ha toccato quota 4,48 miliardi di euro, quasi il doppio di quello registrato nello stesso periodo di due anni fa (2,62 miliardi di euro), questo nonostante la Dell Computers abbia delocalizzato la produzione in Polonia in cerca di salari da fame da pagare.

Il perché è presto detto, l’hub hi-tech di Galway è diventato la casa del “semantic web”, ovvero la prossima rivoluzione di internet. Molte multinazionali specializzate in attrezzi medici, inoltre, stanno lavorando e investendo da queste parti, con cifre decisamente alte. «Siamo al livello di Svizzera, Germania e qualsiasi altro paese al mondo», ha dichiarato con orgoglio al Daily Telegraph John Power, fondatore della Aerogen e detentore di quaranta brevetti ad altissima tecnologia medica. Il fiore all’occhiello della sua produzione à la cosiddetta “Aeroneb micropump”, ovvero una pompetta utilizzata per iniettare direttamente nei polmoni medicinali mantenendo libere le vie aeree: la piccola contrazione su cui si basa il marchingegno vibra 140mila volte al secondo, emettendo uno spray aerosol ultrafine attraverso buchi e cavità invisibili, ognuno dei quali misura circa tre micron.

 

Di fatto, uno strumento chirurgico che pone fine alla medicina in endovena e di cui esiste anche una versione più piccola ideale per bambini e neonati. «Stiamo salvando vite in tutto il mondo, è una splendida sensazione», ha commentato Power. Insomma, la “tigre celtica” azzoppata dalla crisi sta tornando a mordere grazie all’alta tecnologia. «I nostri profitti sono cresciuto del 40% negli ultimi tre anni e pensiamo che anche quest’anno sarà lo stesso. Il Giappone è un grande mercato per noi», ha concluso Power, felice della crisi demografica e dell’invecchiamento cronico del Sol Levante.

 

D’altronde, il mercato della tecnologia e della strumentazione medica è un vero e proprio play strutturale per rispondere ai due grandi trend del mondo: ovvero, l’invecchiamento dell’Occidente e la crescente domanda sanitaria della middle-class asiatica. L’hub tecnologico irlandese, ovviamente fonte di attrazione per laureati e ricercatori da tutto il globo, è il terzo esportatore di strumenti medici al mondo in termini assoluti, dopo Usa e Germania: le scienze legate alla vita da sole pesano per un terzo sui 160 miliardi di euro di export irlandese. La Boston Scientific da sola ha 4500 impiegati nel paese, moltissimi dei quali laureati e sta lavorando a una nuova strumentazione per evitare la chiusura delle arterie: il settore quest’anno conoscerà una crescita del 10%.

 

La crisi, nei fatti, ha sì fatto scendere i salari (quelli per i neo-assunti del 10-15%), ma ha fatto crollare anche i costi per gli affitti ad uso lavorativo del 45%, il costo del lavoro per unità del 13% rispetto alla media dell’eurozona dal 2008 ad oggi e portato Dublino ad essere la 33ma città più cara del mondo, dopo essere stata la sesta prima della crisi: metteteci la tassazione corporate al 12,5% e il gioco del miracolo è fatto. Certamente la situazione non è rosea, il Pil nominale si è contratto di un quinto, il debito pubblico salirà al 115% del Pil a causa dei 40 miliardi di euro necessari per salvare Anglo Irish Bank, però c’è una speranza che va al di là delle politiche di salvataggio e dell’austerità totale: l’export di prodotti ad alta tecnologia, la piccola e media impresa che si fonde con la ricerca di alto livello e traduce il capitale umano in profitto. Per tutti.

 

Sarà abbastanza stabile come base questo export per garantire vita all’isola che tutti davano per morta? Difficile dirlo ora, di certo c’è che Stryker Orthopaedics, gruppo Usa specializzato in protesi e con uno stabilimento a Limerick, sta chiudendo il suo centro di ricerca a Caen in Francia per tornare in pianta stabile in Irlanda: «La nostra è una scelta valoriale a lungo termine, non una scappatoia salariale», ha dichiarato il direttore Gerry McDonnell. «Siamo diventati la Silicon Valley della farmaceutica, ma i prossimi anni ci presentano grandi sfide», ammette Eamon Judge, capo della Eli Lilly, secondo cui però «torneremo al boom nel 2013 visto che abbiamo in cantiere 70 nuovi prodotti».

Ma non solo. La stessa IBM baserà a Dublino le operazioni di “Smart Planet” e Google, PayPal, eBay, Facebook e United Technologies sta ancora assumendo. Quindi, a dispetto del fatto che gli spread obbligazionari sul debito irlandese dicano ogni giorno una cosa diversa (chiedete conto alla speculazione globale fomentata dalle società di rating Usa), esiste una via d’uscita produttiva e umana alla crisi finanziaria e anche a cancri come Anglo Irish Bank. Una bella realtà, una bella notizia da raccontare, finalmente!

 

È ora di smetterla di dare peso alle valutazioni delle società di rating statunitensi, felici di destabilizzare l’Europa a loro profitto e chiedere con forza l’istituzione di una società indipendente europea: le forze sane del lavoro, dell’economia e della società hanno la ricetta giusta, occorre credere in loro. Fregandosene di rating e report di Wall Street. Ai derivati contrapponiamo ricerca, eccellenza e capitale umano (tre caratteristiche riconosciute nel mondo alle pmi italiane, santo cielo, se solo ci fossero un governo e una politica industriale in grado di sostenerle!). E vinceremo.