A volte in una lettera può essere custodito un destino. Infausto, in questo caso, anche se con sfumature differenti. Oggi affrontiamo il caso di una doppia “i”, la prima delle quali sta per Irlanda. Un paese tremendamente sfortunato, visto che la crisi dei bonds ha assunto le caratteristiche della classica palla di neve che rotola fuori controllo fino a diventare una valanga prima che il suo settore medico, farmaceutico, di information technology e finanziario potesse giungere in soccorso del debito fuori controllo grazie a investimenti esteri ed export.

I rendimenti sui bond decennali irlandesi l’altra mattina hanno toccato quota 7,41%, un record assoluto per l’era post-unione monetaria. Certo, l’Irlanda è formalmente in grado di resistere a livello di fondi fino al prossimo aprile e ci sono altri 12 miliardi di euro di riserve pensionistiche che possono essere utilizzate in extremis, ma la situazione è meno gestibile di quanto sembri: gli spread rispetto ai Bund tedeschi stanno mimando in maniera spaventosa gli andamenti visti nelle ultime ore di indipendenza della Grecia prima di recarsi da Ue e Fmi con il cappello in mano.

Ieri parlavamo di “bolla di pessimismo”, oggi dobbiamo parlare chiaramente di crisi di fiducia internazionale: una volta che mette radici contamina tutto e una prima conferma ci giunge dai sempre crescenti costi che pagano le banche irlandesi per prendere a prestito denaro. Inoltre, questo euro da record non aiuta affatto visto che in base alle regole del Fmi le valute dovrebbero scendere dell’1,1% ogni punto percentuale di Pil in una stretta fiscale: dato che l’Irlanda sta per entrare nel peggior periodo di contrazione fiscale di sempre per un’economia moderna, necessita di una svalutazione per andare in pari. Peccato che l’euro si sia apprezzato del 18% rispetto al dollaro da giugno a oggi.

Il già citato Karl Whelan, ex economista della Fed e ora docente all’University College di Dublino, parla a chiare lettere «di probabilità ragionevolmente alte del fatto che l’Irlanda dovrà rivolgersi all’Ue e al Fmi, anche se resisterà fino all’ultimo istante per evitare questa terribile umiliazione». Il governo, dal canto suo, sta pensando di utilizzare l’opzione atomica per evitare questo epilogo: ovvero, portare da 3 a 7 i miliardi di euro i tagli per il budget 2011. Auguri, una seconda rivolta di Pasqua potrebbe essere alle porte.

Per Whelan, «i rendimenti dei bond governativi, di fatto, sono prezzati al livelli di default. Se continuerà così, l’Irlanda non potrà più prendere a prestito sul mercato dei bond sovrani». Per Colm McCarthy, economista e collega di Karl Whelan, «l’Irlanda ha tempo fino a gennaio o febbraio al massimo per tornare sul mercato dei bond dopo aver sospeso tutte le aste a causa dell’esplosione dei rendimenti. Gli 1,5 miliardi di euro non presi in prestito a ottobre e gli 1,5 miliardi non presi a prestito a novembre, sono solo postposti, non evitati. E se una volta rientrati sul mercato obbligazionario nulla accadrà di positivo? Ovvero, che l’ammontare richiesto non è offerto oppure il tasso di interesse richiesto è troppo alto per poterselo permettere. Sono due le opzioni: in questo caso un ricorso al salvataggio sarebbe inevitabile. Non resta che sperare nel budget, ma se il governo farà troppo poco per tranquillizzare i mercati, il gioco sarà finito e non sarà più possibile finanziarsi; a quel punto entreranno in gioco Ue e Fmi e con le loro ricette di politica eterodiretta e sarà la fine della sovranità».

Per Karl Whelan, «nessun governo irlandese vorrebbe mai andare con il cappello in mano da Ue e Fmi, ma nei prossimi mesi avremo quattro elezioni suppletive che il Fianna Fail (centrodestra moderato e partito di governo, ndr) perderà quasi certamente, rischiando quindi la maggioranza,una crisi di governo e la capacità di approvare il budget. A questo punto non è peregrino pensare a elezioni generali anticipate a gennaio, ipotesi che causerebbe un’ulteriore esplosione degli spreads». Inoltre, la Grecia quando ha avuto bisogno, ha potuto prendere denaro a prestito dal fondo di salvataggio Ue da 110 miliardi di euro al tasso del 5%, livello non più possibile visto che in base alle regole del nuovo fondo europeo di salvataggio (EFSF) si viaggerà attorno al 6%, se non qualcosina di più. L’Irlanda ringrazi Angela Merkel e la sua volontà di regolamentare i processi di debito/crisi e di imporre haircut ai rendimenti, da un lato capace di mettere in fuga gli investitori dai mercati (salvo chiedere rendimenti stellari) e dall’altro – seppur questa politica appaia giustificata sul lungo periodo – di condannare a morte Dublino in un momento così delicato per la sua stessa sopravvivenza.

 

E qui, scusate ma una divagazione appare necessaria: sapete, nei fatti, perché l’Irlanda è precipitata in questo disastro? Per il semplice fatto che per la maggior parte della scorsa decade la Bce ha mantenuto il tasso di interesse reale al -2% per andare incontro alle esigenze degli stessi tedeschi che ora si ergono sulla Rupe Tarpea dell’Ue e decidono il destino dei Pigs. E già, i Pigs, visto che il default irlandese, innescherebbe immediatamente quello portoghese (l’altro giorno nuovo record per i rendimenti obbligazionari a breve termine di Lisbona), costringendo l’EFSF a due potenziali salvataggi contemporanei che imporrebbero donazioni sempre maggiori di quote da parte dei paesi membri e il potenziale contagio alla Spagna.

 

Teoricamente l’EFSF potrebbe gestire anche un triplo default simultaneo per Irlanda, Spagna e Portogallo, ma questo comporterebbe l’immediata perdita del rating AAA per il fondo di salvataggio Ue, a meno che Germania, Francia e il resto del nucleo forte mettano mano al portafoglio per offrire nuovo collaterale: ma se Angela Merkel lo farà, il suo governo durerà dieci minuti. L’Italia si vedrà costretta a dover raggranellare molti soldi per riuscire a raggiungere la sua quota di donazione al fondo di salvataggio, stressando ulteriormente il debito pubblico dopo mesi di rigore tremontiano e finendo gioco forza nel mirino degli investitori e delle agenzie di rating.

 

Già, l’Italia, ecco la seconda “i”. Ovviamente il nostro paese non è affatto nelle condizioni disperate dell’Irlanda ma un dato, posto in evidenza dall’ultimo report della Nsi Managers di Londra, sembra prospettare un 2011 molto negativo per i conti e per l’economia: si tratta dei depositi di base monetaria M1, il cui andamento rispetto all’inflow industriale nei cosiddetti paesi periferici è riportato nel grafico qui sotto.

 

 

Ma a fare paura per il futuro immediato del nostro paese, da cui gli allarmi continui di Mario Draghi e l’atteggiamento molto più prudente nei confronti di Palazzo Koch da parte di Giulio Tremonti, è il secondo grafico, dove l’andamento dei depositi M1 del nostro paese sono visualizzati dal tracciato in verde.

 

 

Come vedete, stanno calando, un picco netto che registriamo dopo aver visto la Spagna replicare questo andamento poco tempo fa.

Cosa significa? Lo abbiamo chiesto a un banchiere popolare, che ci ha risposto che «in effetti l’unico altro periodo recente in cui i tassi di variazione reali di M1 (ovvero base monetaria più depositi in conti correnti facilmente trasformabili in moneta) hanno presentato una flessione si ritrova dopo la partenza della crisi nell’estate del 2007. In quel periodo, circa da settembre 2007 fino alla primavera 2008, la decrescita di M1 a mio giudizio si deve leggere con l’incremento di M2 e M3, aggregati monetari “più ampi” ma “meno liquidi”, laddove confluirono i disinvestimenti di liquidità da conti correnti (nel caso italiano vi fu una netta traslazione da conti correnti a pronti contro termine).

 

Dopo l’estate 2008, invece, il crack Lehman contribuì a favorire la crescita, a ritmi percentuali mai sperimentati in precedenza, di M1; nessuno voleva più pronti contro termine con sottostanti bond bancari: anche noi ne abbiamo visto gli effetti, con un chiaro aumento delle disponibilità liquide di conto dei clienti. La flessione attuale a mio giudizio è giustificata dal fatto che – grazie ai recenti periodi di crescita sostenuta di M1 – lo stock ha oggi raggiunto un livello alto e i detentori di strumenti liquidi li stanno riposizionando, almeno in parte, su altri meno liquidi (il solo BOT o il pronto contro termine sono addirittura parte di M3; i depositi “time” già fanno parte di M2): non però in pronti contro termine con sottostanti bond bancari».

 

Ma per completare l’analisi, abbiamo interpellato anche Simon Ward, l’economista di Nsi Managers che ha condotto lo studio. «Devo precisare che non sono un esperto di economia italiana, detto questo negli anni ho trovato la base monetaria M1 uno strumento di valutazione e previsione molto utile per un ampio spettro di nazioni. Penso infatti che M1 spinga l’attività economica perché la gente sposta i risparmi in M1 a fronte di una crescita della spesa: la mia ricerca, di fatto, supporta la tesi di Friedman in base alla quale la vera base M1 guida l’economia di un paese per 6-12 mesi.

 

La recente debolezza di M1 nella nazioni altamente indebitate, inclusa l’Italia, mi suggerisce che queste economie stagneranno o si contrarranno nel prossimo anno, uno sviluppo che andrà a minare i piani di consolidamento fiscale. Questo rischio, poi, è stato esacerbato dalla forte crescita dell’euro durante l’estate, che a mio modo di vedere riflette errori politici sia della Bce (che ha permesso alla base monetaria di contrarsi) che della Fed (espandendo il programma di quantitative easing). Altri economisti continuano a preferire l’aggregato M3 come indicatore, base monetaria che in Italia sta ancora crescente ma storicamente M1 ha sempre performato meglio come indicatore principale macro».

 

Ora i detrattori dell’ansiogeno Mario Draghi, forse, rivedranno il loro giudizio. Ci aspetta un 2011 duro, molto duro: sarebbe carino che tra una Ruby e una casa di Montecarlo, qualcuno prendesse atto della situazione e offrisse una politica economica al paese.