L’Europa ha il febbrone. Ma nei centri studi delle principali banche d’affari e dei fondi londinesi si guarda con attenzione e preoccupazione ad altri indicatori, ovvero la politica di restrizione del credito posta in essere dalle autorità cinesi per evitare l’esplosione della bolla creatasi negli anni e, soprattutto, l’inflazione e il picco dei rendimenti dei bond statunitensi dopo l’accordo per la proroga dei tagli fiscali decisa da Barack Obama insieme ai Repubblicani lunedì scorso.
Insomma, se il Vecchio Continente non sta bene, le due potenze mondiali non scoppiano di salute. Partendo dalla Cina, Tim Ash, analista per i mercati emergenti di Royal Bank of Scotland, pare particolarmente in ansia per quello che definisce «un ricorso preventivo ai freni, una reazione potenzialmente malevola a quello che possiamo definire il giorno della presa d’atto». Di cosa? Del fatto che l’inflazione in Cina a ottobre era al 4,4% e a novembre ha toccato il 5%, ma nessuno crede a livelli così bassi: basti pensare che il prezzo dei vegetali (base dell’alimentazione cinese) è salito del 20% in un mese.
La rivolta di Tienanmen del 1989 ha insegnato al potere cinese che prezzi in salita significano dissenso in crescita e Ash la pensa così: «L’inflazione altro non è che un meccanismo redistributivo in favore dei pochi che possono proteggere il loro stile di vita contro la maggioranza che non può. E la leadership cinese sa che non può correre questo rischio». Non è un caso, quindi, che Royal Bank of Scotland raccomandi ai suoi clienti i cds a cinque anni sul debito cinese, non perché si preveda un default sovrano, ma contro il cosiddetto “fat tail risk”, ovvero la seria ipotesi di un grave rischio, legato al prestito selvaggio, problema che presenta ramificazioni in tutta l’Asia. Non è un caso che venerdì scorso il Politburo di Pechino abbia annunciato per il 2011 una politica monetaria prudente, ovvero razionamento del credito e controllo dei prezzi: la domanda che ci si pone a Londra è se non sia troppo tardi per farlo.
Le cifre, d’altronde, parlano chiaro: la fornitura di moneta è cresciuta a un tasso del 40% nel 2009 e nella prima metà di quest’anno a fronte della scelta di Pechino di utilizzare un epico boom del credito per mantenere in vita la sua crescita record, ma ora i costi di questa politica superano – e di parecchio – i benefici. L’economia cinese, quindi, sta entrando nel quadrante peggiore del ciclo, ovvero la stagflazione (stagnazione più inflazione): stando a uno studio condotto da Citigroup ci vorrà una crescita pari a 1,84 yuan nella massa monetaria M2 per generare 1 yuan di crescita, questo contro l’1,30 yuan dell’ultima decade. E questa situazione sta spostandosi verso il mercato immobiliare, dove i prezzi delle case a Pechino, Nanchino, Shanghai e Shenzen sono sempre maggiormente sconnessi dai fondamentali: 22 volte lo stipendio medio a Pechino, 18 volte a Shenzen contro l’8 di Tokyo e il picco di 6,4 toccato dagli Usa all’apice della bolla, poi sceso a 4,7: la price-to-rent ratio nelle città della Cina occidentale è salita di oltre il 200% dal 2004.
Il problema, certificato dal Fondo Monetario Internazionale, è che la vendita di terreni garantisce il 30% di tutte le entrate governative a Pechino: c’è puzza di sindrome irlandese, all’ennesima potenza però. Insomma, fino a oggi la Cina ha finto che il biennio di crisi globale non la toccasse e ha lasciato che le cose andassero come sempre: quel tempo è finito. Per Diana Choyleva di Lombard Street Research a Londra, «la macchina di crescita cinese continuerà a funzionare nella mente della gente per un periodo di tempo superiore alla fine dei suoi reali mezzi di supporto. Il problema è che il tasso potenziale di crescita della Cina nella decade che si è appena aperta facilmente scenderà al 5%».
Accadrà davvero un dimezzamento della crescita? Per non farsi cogliere impreparata, l’agenzia di rating Fitch, insieme alla Oxford Economics, ha appena elaborato uno studio-simulazione riguardo questa ipotesi e con un tasso del credito privato cresciuto del 148% rispetto al Pil, contro la media del 41% dei paesi emergenti, il rischio è fuori dalla porta ad attenderci visto che la reale entità dei prestiti erogati a governi locali ed entità statali è stata ridimensionata artificialmente dal governo cinese. Stando allo studio, una politica di prestito simile potrebbe sostanziarsi in un crollo del 20% del prezzo delle commodities a livello globale, un ampliamento di 100 punti base dello spread del debito dei paesi emergenti, un calo del 25% delle Borse asiatiche e un calo del 2,6% della crescita nell’Asia emergente.
Per Albert Edwards di Societe Generale, questi dati confermano il fatto che «siamo tutti testimoni di una bolla di proporzioni epiche che esploderà intrappolando ignari investitori come accadde per la bolla asiatica di metà anni Novanta. Ignorare gli indicatori che ci giungono è un rischio molto pericoloso da correre». La Cina continui a incamerare inflazione e non ci sarà bisogno della rivalutazione dello yuan tanto richiesta dagli Usa: se nel 2011 scoppierà la bolla, la riserva di 2,6 trilioni di dollari di Pechino servirà a poco visto che non può essere utilizzata internamente per l’economia. La storia insegna: due volte solo nello scorso secolo una nazione accumulò riserve pari al 6% del Pil globale: gli Usa negli anni Venti e il Giappone negli anni Ottanta. Come è andata a finire lo sappiamo tutti. E potrebbe trasformare di colpo la crisi del debito sovrano in Europa in una lite condominiale.
E l’America? È bastato l’ok al compromesso per la proroga del taglio delle tasse di bushiana memoria per far schizzare il rendimento del Treasury decennale, benchmark monetario mondiale e pilota chiave dei tassi per i mutui Usa, al 3,3%, su di 35 punti base in un solo giorno. Per molti, è la fine della “Obamanomics”, ovvero la politica economica fin qui sposata dal presidente Usa. La svendita di Treasury ha avuto un’immediata eco per le obbligazioni in Asia, Europa e America Latina: i costi per il finanziamento del debito giapponese a sette anni sono saliti di un sesto in una sola sessione di contrattazioni, mentre il rendimento del Bund tedesco ha sfondato quota 3%, il massimo da sette mesi.
Per David Bloom, capo analista del monetario a Hsbc, «è difficile capire se questa messe di vendite obbligazionarie sia legata all’idea da parte degli investitori di una forte crescita per l’anno prossimo grazie alla politica di stimolo o se i mercati stanno perdendo la pazienza con la politica di Washington. Se tutto questo è legato alla crescita, allora c’è da brindare. Se invece i rendimenti salgono perché la gente ritiene la situazione fiscale Usa insostenibile, allora è l’armageddon. Gli Usa non possono andare avanti così solo perché sono la moneta di riserva del mondo, questo sarebbe totalmente inaccettabile in altre nazioni. Penso che questi problemi cominceranno a cristallizzarsi negli Usa nella seconda metà del 2011, una volta che la crisi del debito europea si sarà stabilizzata».
Per Li Daokui, responsabile dei tassi alla Banca centrale cinese, «per ora i mercati sono ancora focalizzati sull’Europa ma dobbiamo stare attenti alla situazione fiscale negli Usa, ben peggiore di quella europea». L’accordo fiscale siglato negli Usa aggiungerà mille miliardi di dollari di stimolo nei prossimi due anni, stando a calcoli di BNP Paribas. Il deficit di budget Usa resterà fermo a quota 10% del Pil, non solo nel 2011 ma anche nel 2012 e questo porterà alla crescita del debito pubblico lordo al 110% sul Pil, stando ai canoni valutativi del Fmi, vicino al precipizio di una spirale del debito. Sia Moody’s che Fitch hanno messo in guardia gli Usa riguardo alla necessità di porre in essere una strategia credibile per controllare la spesa: «Abbiamo preoccupazioni sul lungo termine riguardo l’outlook di rating Usa e queste non sono state cancellate dalla azioni fin qui compiute dal Governo», ha dichiarato Stephen Hess, capo analista per gli Usa di Moody’s.
Per Stephen Lewis di Monument Securities, la strada che l’obbligazionario ha intrapreso è un segnale riguardo il fatto che Washington non può più prendere i mercati per garantiti: «Abbiamo raggiunto il limite della tolleranza per i deficit di budget. C’è una sensazione nel mondo in base alla quale nessuno a Washington stia prestando attenzione alle implicazioni legate a quanto stanno facendo, ma c’è un reale segnale di rischio che questo comportamento si ritorcerà contro se le rate dei mutui continueranno a salire. Allo stesso tempo abbiamo constatato una perdita di fiducia verso la strategia della Fed. C’è la sensazione che la Fed non si interessi dell’inflazione – e infatti ne vuole di più – e questo non è certamente nell’interesse dei detentori di bond».
In effetti, la rata standard per un mutuo trentennale negli Usa si è mossa parallelamente ai rendimenti dei Treasury: 85 punti base negli ultimi tre mesi, una crescita legata alle indiscrezioni – poi divenute realtà – di un nuovo piano di quantitative easing. I dati a livello mensile riguardo la detenzione estera di Treasury mostra come la Cina abbia venduto il controvalore di 24 miliardi di dollari a settembre e la Russia 10 miliardi di dollari. La preoccupazione principale riguarda il fatto che la fuga di capitali esteri dall’obbligazionario del debito Usa porterà con sé un aumento degli acquisti mensili da 100 miliardi di dollari della Fed, rendendo ancora più difficile per Washington la possibilità di racimolare 1400 miiardi di dollari nel 2011 per coprire il deficit.
La crescita dei rendimenti sta divenendo il segnale chiaro della perdita di controllo della Fed sui tassi a lungo termine: il pericolo consiste nel fatto che il mercato possa spaventarsi rispetto a possibili perdite legate ai bond – sia per inflazione che per aumento dei premi sul default – e questo neutralizzi l’effetto dello stimolo oppure porti verso la stagflazione. Insomma, né Washington, né Pechino hanno troppi motivi per sorridere: magra consolazione ma di questi tempi…