Il tempo è galantuomo. I sussidi settimanali di disoccupazione negli Usa salgono a sorpresa di 31 mila unità a quota 473mila, questo nonostante gli analisti si aspettassero un calo di 10mila unità. Ma non basta. I prezzi alla produzione negli Usa salgono dell’1,4% mensile a gennaio, contro un aumento dello 0,4% a dicembre: gli analisti si aspettavano un incremento dello 0,8%. I prezzi alla produzione core, con l’esclusione dei beni energetici e alimentari, crescono dello 0,3%, contro un atteso +0,1%, mentre a dicembre erano rimasti invariati. Su base annuale i prezzi alla produzione Usa avanzano del 4,6%, il balzo in avanti più grande dall’ottobre 2008, contro un atteso +4,4%: circa tre quarti dell’aumento mensile di gennaio è legato al +5,1% dei prezzi dell’energia.



Ecco il frutto, amaro, del dato record sulla crescita economica che ha infiammato le Borse una decina di giorni fa: ora l’iperinflazione attende alla finestra e tra poco chiederà il conto. Ma se gli Usa, nonostante i dati “alla cinese” che ultimamente forniscono, stanno tutt’altro che bene, l’Europa sprofonda nel ridicolo.



Ciò che era, nei fatti, una decisione meritoria – ovvero chiedere conto alla Grecia e a Goldman Sachs degli swap sul monetario posti in essere allegramente nel 2001, ma proseguiti ancora nel tempo, non più tardi dello scorso novembre – si è trasformata nella solita battaglia di retroguardia politica, con i tedeschi scatenati nel voler coinvolgere Mario Draghi, potenziale successore di Jean-Claude Trichet alla Bce e antagonista del teutonico Alex Weber, nell’operazione ellenica al fine di bruciarne la candidatura.

Complimenti, un’operazione geniale in un momento come questo. E se mercoledì Angela Merkel ha giocato a nascondino con le proprie reali intenzioni chiedendo chiarimenti a Goldman, ieri è stato il turno del ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde, per alzare la voce sulle operazioni swap sui derivati della Grecia con la banca d’investimenti Usa chiedendo chiarimenti. «È una questione – dice – su cui dobbiamo avere delle risposte. Dobbiamo sapere – aggiunge – se c’è stato un camuffamento dei conti e se, all’epoca, si è trattato di operazioni lecite».



Sulle operazioni sui derivati della Grecia, la Lagarde ha precisato poi che «se erano legali, allora vogliamo sapere se fossero finalizzate alla stabilità e probabilmente non era così». Mercoledì la cancelliere tedesca aveva detto che «sarebbe uno scandalo se dovesse risultare che le banche hanno aiutato la Grecia a nascondere il suo deficit».

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Ma sempre ieri la stessa Merkel è tornata alla carica affermando che la Grecia e altri paesi dell’area euro devono perseguire politiche di bilancio come quelle della Germania: «Proprio come la Germania – dice – deve perseguire una attenta politica di bilancia, ci aspettiamo che altri paesi membri e in particolare la Grecia facciano altrettanto». E brava la nostra maestrina tedesca, parla bene ma razzola molto male.

 

L’economia della Germania nel 2009 ha infatti attraversato la sua peggiore recessione dalla fine della Seconda Guerra Mondiale perdendo il 5%, stando ai dati che sono stati diffusi dall’Ufficio federale di statistica a Wiesbaden. Per quanto riguarda il Pil, va notato che nel 2009 l’export tedesco è sceso del 14,7%, mentre le importazioni sono calate dell’8,9% e i consumi privati sono cresciuti l’anno scorso dello 0,4%, come nel 2008. Ma questo non basta.

 

Per i titoli pubblici, ma anche per le obbligazioni societarie, gennaio è stato un mese di fuoco. E l’attenzione del mercato si concentra proprio sulla Germania visto che il governo di Berlino ha programmato quattro aste per un totale di 22 miliardi di euro, oltre un decimo dell’ammontare in emissione per l’intero 2010, escludendo i titoli indicizzati all’inflazione. La Germania si candida a essere uno dei protagonisti del mercato, considerando che l’ammontare nominale complessivo delle emissioni programmate per il prossimo anno sarà superiore del 35% rispetto all’anno in corso a causa dell’esigenza di copertura del maxi-piano di spesa pubblica a sostegno dell’economia, prima che venga iniziata l’opera di rientro del deficit.

 

Insomma, Berlino tenta la carta della maxi-emissione perché sa che – come diciamo da mesi su ilsussidiario.net – o si dà vita entro marzo alla bad bank o il sistema bancario – con a cascata quello assicurativo – salterà come un tappo di spumante a Capodanno sotto il peso di circa 300 miliardi di euro di titoli tossici da scaricare. Ma non solo, un’altra bomba è all’orizzonte. Ovvero, prestiti e fidi che le banche dovranno scrivere nei loro libri contabili come inesigibili.

A quanto ammontano? Da 70 a 90 miliardi di euro, un livello di svalutazione che sia negli Usa che in Europa toccheranno relativamente il 12% e il 13% del totale. A fare paura è il fatto che una componente molto grande della futura messe di perdite sarà ancora legata ai Cdo, ovvero i subprime che le banche millantavano di non avere in pancia o di avere eliminato e che invece porteranno con sé qualcosa come altri 16 miliardi di dollari di perdite nel primo trimestre.

 

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Nonostante non lo si voglia ammettere, ad esempio, Commerzbank, Hsh Nordbank e Bayern Lb – tutte banche tedesche – sono a forte rischio di nazionalizzazione già entro il primo semestre del prossimo anno, lo ha ammesso la stessa Bundesbank che ha chiaramente fatto capire che la strada maestra sarà quella che portò poche settimane fa al salvataggio di WestLB, scherzetto costato quattro miliardi di euro ai contribuenti tedeschi.

 

Quindi, Atene e Goldman Sachs non saranno dei santi e siamo noi i primi a dirlo, ma Berlino la smetta con la sua grandeur passata, visto che resta in piedi a stento e ha ben poco da insegnare agli altri. E, forse, sarebbe il caso che Silvio Berlusconi cominciasse ad alzare davvero la voce in sede Ue per far finire questa sorta di pantomima da dittatura politica.

 

In compenso qualcosa di strano si muove nel mondo delle banche d’affari e guarda caso riguarda proprio Goldman Sachs, la quale ha denunciato sette suoi alti manager che due settimane fa, in fretta e furia, hanno dato le dimissioni per passare armi e bagagli a Credit Suisse, istituto che li ha coperti di milioni di dollari pur di accaparrarsene i servigi.

 

Normale regola di mercato, direte voi. Molto strana, invero. Poiché si sa che difficilmente si lascia Goldman quando ne si fa parte – e soprattutto a certi livelli – e ancor di più perché la Svizzera sta combattendo una guerra strisciante e silenziosa in difesa delle liste nere e del segreto bancario, oltre a porre le basi al trasferimento a Ginevra degli hedge funds pronti a scappare da Londra per sfuggire alle leggi draconiane del governo Brown.

 

Inoltre, uno dei sette dipendenti era capo della filiale di Atlanta, sede particolarmente strategica per certi tipi di operazioni finanziarie: David Fox, questo il suo nome, sarebbe stato pagato 11 milioni di dollari per accettare di passare a Credit Suisse, più uno stipendio faraonico e bonus a pioggia.

 

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Qualcosa di strano, molto strano sta bollendo in pentola nella placida Svizzera. Anche perché i segnali di una crisi destinata a proseguire e inasprirsi almeno entro il primo semestre dell’anno ci sono tutti: a New York, infatti, circola un outlook di FXboss.info in base al quale entro i prossimi dodici mesi l’oro toccherà quota millequattrocento dollari l’oncia.

 

Il bene rifugio per eccellenza, quello che tesaurizza le aspettative di crisi reale, cresce e continuerà a crescere di valore: ecco perché la Cina ne ha fatto man bassa sostituendolo nelle riserve al dollaro e costruendo bunker sotto le piste di alcuni aeroporti del paese per stivarlo. I guai sono davanti a noi, non dietro. E l’effetto Grecia, se continueremo a gestire la situazione in questa maniera, rischia di essere una miccia devastante.