Barack Obama ha un asso nella manica. O, almeno, lo speriamo per lui e per noi. Se infatti la sua dura sfida contro Pechino – la decisione di ricevere il Dalai Lama alla Casa Bianca accompagnata dall’attacco senza precedenti contro la valutazione al ribasso dello yuan che consente al Dragone di restare il soggetto maggiormente competitivo nell’export mondiale – non si basasse su una strategia precisa, allora gli Usa sarebbero davvero nei guai. E il resto del mondo occidentale, con loro.

Mercoledì l’agenzia di rating Moody’s ha reso noto l’ennesimo out look dicendo a chiare lettere che se il programma economico recentemente presentato dal presidente Usa non porrà in essere manovre chiare e drastiche per ridurre il deficit di budget, la valutazione AAA sarà pesantemente a rischio. Insomma, Obama sembra intento a combattere una battaglia che lo vede isolato su due fronti: quello dello scontro con Pechino e quello con i poteri finanziari interni, da tempo ormai sulle barricate contro le politiche stataliste dell’amministrazione statunitense.

Le proiezioni del rapporto debito su Pil degli Usa, d’altronde, sono spaventose: secondo Steven Hess, capo del dipartimento di Moody’s, attualmente si viaggia attorno al 53%, ma entro cinque anni si arriverà al 73% e al 77% nel 2020. Questo, ovviamente, se le politiche resteranno tali: un segnale più che chiaro sul fatto che le linee guida presentate da Barack Obama nella presentazione del Budget sono, niente più e niente meno, che una sorta di suicidio di medio termine.

È il secondo richiamo all’ordine ufficiale in pochi giorni dopo quello lanciato da Fitch, che la scorsa settimana ha pubblicato un durissimo out look nel quale metteva anch’essa in discussione il rating AAA degli Usa nel caso questi non taglino pesantemente la spesa al fine di porre sotto controllo il deficit di bilancio, citando una spirale per quanto riguarda i costi del debt service e la dipendenza da creditori esteri.

A lanciare la sassata ci ha pensato Brian Coulton in persona, il capo del dipartimento sui rating sovrani dell’agenzia: come dire, qui nessuno sta scherzando. Anche perché il combinato di debito federale e statale il prossimo anno toccherà quota 94% del Pil, contro il 57% di tre anni fa. Insomma, Fitch non fa che ricordare all’amministrazione Usa ciò che tutti, da tempo, stiamo dicendo: ovvero che i pacchetti di stimolo al settore bancario hanno ottenuto come unico risultato quello di spostare sulle spalle dei contribuenti i costi della crisi.

Siamo alle soglie, avverte Coulton, di un vero e proprio «shock sui tassi di interesse verso il debito di breve e medio termine e verso i creditori esteri». Siamo alle soglie di una “roll over crisis” globale visto che metà del debito Usa è detenuto da Giappone, Cina e investitori del Medio Oriente e che, con il passare del tempo e il deteriorarsi della situazione, è probabile che qualcuno cominci a mettersi in posizione di hedging e cominci a scaricare posizioni mandando in loop il già precarissimo equilibrio su cui si basano i conti Usa.

Obama questo lo sa e lo ha detto chiaro e tondo ai suoi connazionali quando ha prospettato che la Cina e altre nazioni potrebbero cessare di acquistare titoli del debito pubblico americano e ha dichiarato che gli Usa devono fronteggiare il (problema del) debito per evitare danni economici di lungo periodo: «Il deficit di lungo periodo e il debito che abbiamo accumulato non è sostenibile. Non possiamo continuare a prendere soldi a prestito dalla Cina o dalle altre nazioni. Dobbiamo pagare interessi su quel debito e in questo modo stiamo ipotecando il futuro dei nostri bambini con sempre più debito».

 

Obama ha poi dichiarato che la situazione del debito creerebbe ulteriori problemi se nazioni straniere come la Cina perdessero il loro appetito per i buoni del tesoro americani: «È anche vero che a un certo punto si stancheranno di comprare i nostri debiti… e se questo accade, dobbiamo alzare i nostri tassi di interesse per essere in grado di prendere a prestito, e questo alzerà i tassi di interesse per tutti». Insomma, Obama ha annunciato il possibile, futuro default Usa e per tutta risposta dichiara guerra alla Cina, con cotè di sei miliardi di commessa militare a Taiwan.

 

Qualcosa non quadra. O il presidente Usa ha avuto chiari segnali della volontà cinese di scaricare posizioni di detenzione del debito Usa e allora passa all’attacco mostrando le unghie e i denti sperando di giungere a un compromesso, oppure qualcosa è in gestazione: un qualcosa che potrebbe concretizzarsi in un pericoloso muro contro muro che vedrebbe gli Usa pronti a lanciare un attacco senza precedenti contro la valuta cinese al fine, da un lato, di stroncare il monopolio sull’export e dall’altro di strangolare la crescita record del Dragone prosciugando la piscina in cui nuota il piranha rosso, quindi chiudendo attraverso un protezionismo di emergenza le porte ai beni cinesi in eccesso, un qualcosa di ormai acclarato.

 

Il mercato del debito Usa, l’unico in grado di assorbire la messe infinita di merci cinesi, se questo decide di porre fine al gioco di scambio – io mi faccio invadere di beni, tu detieni il mio debito – allora sarà guerra. Alla luce degli avvenimenti di queste ultime ore, appare rivelatore quanto scritto da ilsussidiario.net il 12 gennaio scorso:

 

«Qualcosa sta muovendosi sotto traccia; qualcosa proprio legata a questa crescita della domanda cinese, segnale di una ripresa industriale e di rinnovata crescita. Stando a quanto rivelato dall’International Herald Tribune, il fondo speculativo Kynikos Associates, lo stesso che previde il crollo di Enron, sta scommettendo pesantemente sul default della Cina, ovvero sta posizionandosi al ribasso su quelle società nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture che vendono cemento, carbone e ferro ai cinesi. Stando ai calcoli, del fondo, in Cina sarebbe pronta a esplodere una bolla immobiliare pari a “una Dubai moltiplicata per mille e forse più”, inoltre il settore manifatturiero potrebbe pagare il conto a una sovraproduzione di beni che il mercato non riesce più a consumare e assorbire. Per finire, poi, il forte sospetto che i dati macroeconomici forniti dalle autorità cinesi siano falsati.

 

Insomma, il dragone starebbe per finire con le zampe all’aria. Una cosa è certa: che Pechino trucchi un po’ i conti è noto, ma da qui a definire la Cina un colosso dai piedi d’argilla ce ne passa. Tanto più che se questo dovesse accadere, il primo a pagarne il conto non sarebbe Pechino – che correrebbe ai ripari – ma Washington, che vedrebbe di colpo scaricati i miliardi di dollari di titoli di debito Usa che la Cina detiene. Insomma, in America qualcuno starebbe in qualche modo scommettendo contro il proprio paese. Il dubbio è forte. E non tanto perché si cerchi l’armageddon per fare soldi a palate con le scommesse al ribasso, quanto perché i segnali che alcune élite politiche e finanziarie siano già stanche delle scelte dell’amministrazione Obama ci sono tutti. E una crisi del deficit federale e commerciale potrebbe far traballare il presidente molto più dei rapporti tesi con Mosca o delle riforma sanitaria».

 

Verrebbe da sperare che, in questa fase critica, le scelte di Barack Obama fossero eterodirette e destinate, come accade con i cani che abbaiano sempre più forte, al mostrare i denti per poi sedersi al tavolo a trattare. Altrimenti saremmo davvero di fronte a una guerra. Dalle conseguenze difficilmente immaginabili. Chi l’abbia scatenata non è del tutto chiaro, chi ne pagherà le conseguenze sì.