La lucida analisi di Ugo Bertone pubblicata ieri su ilsussidiario.net è perfettamente condivisibile: l’Italia è oggettivamente sotto attacco. Silenzioso, per ora. Senza scossoni, senza allarmi delle società di rating, senza cds in salita vertiginosa. Ma, questo non toglie nulla alla realtà che stiamo vivendo, l’attacco è reale.



Una sola cosa non mi convince: il voler inserire la Gran Bretagna nel fronte dei nostri nemici solo perché il Financial Times ha attaccato Mario Draghi. Ma procediamo con ordine. Il perché l’Europa stia facendo le pulci ai nostri conti è chiaro: per quanto anello debole dell’Unione, l’Italia ha molti meno problemi dei suoi partner. Persino del panzer tedesco. Certo, abbiamo un debito spaventoso – il terzo del mondo dopo Usa e Giappone – ma ci conviviamo da quarant’anni e fino a oggi rischi di insolvenza per incapacità di rifinanziamento non si sono mai posti.



Diverso per altri. La Spagna, ad esempio, non solo si appresta a diventare la prossima Grecia a causa della seconda bolla immobiliare pronta a scoppiare – la prima ha visto il crollo dei prezzi, ora si parla di problemi legati ai mutui e ai bad assets del settore – ma rischia di essere già tecnicamente fallita. «Un terzo degli istituti di credito rischia di dover affrontare problemi di insolvenza», non lo dice il sottoscritto ma Elena Salgado, il ministro delle Finanze iberico. E, guarda caso, la banca centrale spagnola sta spingendo per un’ondata di fusioni al fine di consolidare riserve e bilanci delle banche: insomma, o nascono tre, quattro grandi gruppi oppure dovremo mettere in conto il potenziale fallimento almeno di Caixa Cat, CAM, Caixa Galicia e Bancaja.



Il loro rapporto tra swap sugli assets in portafoglio e il numero delle ripossessioni di immobili è infatti da spavento, roba da far venir da ridere ripensando alle città fantasma create negli Usa dalla crisi dei subprime. Sono le casse di risparmio a tremare e, infatti, nella sede londinese della loro associazione in Lower Regent Street, c’è poca voglia di parlare: «Nessun commento allo stato attuale», è stata la risposta ottenuta da ilsussidiario.net.

E la Germania? Al di là dello strappo consumato nel rapporto con la Francia, resasi conto di essere alleato utile solo al bene di Berlino ma destinata ad essere agnello sacrificale del progetto teutonico di Europa a due velocità basata sul surplus commerciale, virtuosità fiscale ed export, il gigante europeo è stata paragonato addirittura alla Cina come grado di pericolosità per l’economia mondiale. Lo ha fatto mercoledì, lo stesso giorno dell’attacco a Mario Draghi, Martin Wolf nella sua rubrica sul Financial Times: si parla di Chermany, contrazione tra China e Germany, neologismo inventato da Niall Ferguson, uno storico di Harvard e Moritz Schularick, della Libera Università di Berlino.

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Al centro della disputa, infatti, c’è il ruolo pressoché parallelo dei due paesi: la Cina, attraverso la sua politica di non rivalutazione della moneta e le accuse di “protezionismo” verso Washington e la sua strategia di dollaro debole e la Germania attraverso l’imposizione del proprio modello basato sul surplus commerciale in un momento storico in cui i potenziali compratori, proprio a causa della crisi e del modello tedesco non conformabile ai Pigs più Irlanda, stanno per andare a picco creando una discrepanza devastante tra domanda – sempre più bassa – e offerta, rimasta sui livelli pre-crisi.

 

L’attacco lanciato dal quotidiano della City è di quelli devastanti e non è un caso che la presidenza di turno spagnola dell’Ue abbia acconsentito alla richiesta di Gordon Brown di posticipare a dopo le elezioni del 6 maggio in Gran Bretagna l’approvazione della bozza di regolazione degli hedge funds: Zapatero non è diventato più buono né ha cambiato idea rispetto alla nuova normativa, solamente sa di essere sull’orlo di un precipizio e Londra, attraverso la City, può dargli una spinta in avanti oppure all’indietro. Dipende come ci si comporta: detto fatto, Gordon Brown è stato accontentato.

 

Sono queste ormai le dinamiche mondiali: Cina contro Usa, Germania contro Ue. Il resto dei paesi del Bric – Brasile, Russia e India – continuano a crescere e restano in attesa di sviluppi: il Brasile, poi, sta conoscendo un vero e proprio boom. Il Giappone, dal canto suo, si è lanciato in una sorta di colonizzazione dell’Africa con investimenti miliardari molti Stati. In Sudan la Toyota intende costruire una pipeline da 1,5 miliardi di dollari per portare petrolio dal Sudan alla costa del Kenya, nello stesso Kenya si sta lavorando a un progetto da 320 milioni di dollari per l’energia geotermica portato avanti dal colosso alimentare nipponico Nissin, in Tanzania la Sumitomo Chemical ha aperto due stabilimenti di insetticidi, in Madagascar sempre la Sumitomo è partner principale di un progetto da 3,3 miliardi di dollari per l’apertura di una nuova miniera per l’estrazione di nickel (una delle commodities più hot sui mercati), in Mozambico la Mitshui ha rilevato la partecipazione azionaria della Anadarko Petroleum per la creazione di un pozzo di esplorazione, in Nigeria la Panasonic ha intenzione di investire 2,5 miliardi di yen per creare una rete di distribuzione e incrementare le proprie vendite nel paese.

 

Un chiaro atto di sfida alla Cina, vero e proprio colonizzatore commerciale dell’Africa fino a oggi: Pechino ha 47 ambasciate nel continente, il Giappone sta continuando ad aprirne ed è già a quota 31. Una scelta strategica, quella nipponica, che certamente fa piacere agli Usa, almeno in base alla semplicistica ma sempre valida regola in base alla quale il nemico di un mio nemico è mio amico. In questo momento, infatti, l’amministrazione Obama sta scherzando con il fuoco attaccando Pechino, che ormai basa le proprie relazioni con Washington con la “regola delle 3 t”, ovvero Taiwan, Tibet e Trade, commercio, i tre punti di attrito maggiori.

 

Se la Cina dovesse cominciare a scaricare i miliardi di titoli di debito Usa che detiene per l’America sarebbe guai seri, ma in questo momento Pechino conta, a fronte di un export con il turbo, anche un pericoloso aumento dell’import: nei primi due mesi di quest’anno il surplus commerciale cinese è crollato del 51%, mentre nel solo mese di febbraio l’export ha registrato un +46%, segnale che potrebbe vedere Pechino più morbida riguardo un apprezzamento della propria moneta ma anche indicatore di un possibile cortocircuito “alla tedesca” rispetto a una messe di merci che non trovano alcun mercato sufficientemente grande per essere smaltite e messe in circolo virtuoso.

 

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Insomma, come vedete siamo in un momento interessantissimo e delicatissimo della cosiddetta “geofinanza” di cui abbiamo già parlato in passato. Perché, quindi, dissento da Ugo Bertone sul ruolo della Gran Bretagna? Perché l’attacco a Draghi altro non è che una richiesta di appoggio contro l’asse, ormai un po’ sfaldato, Parigi-Berlino: l’altro giorno la sterlina, che i tedeschi di Unicredit davano per morta e invitavano a shortare, ha toccato una rivalutazione record su dollaro ed euro toccando il massimo da tre settimane grazie al dato che ha visto diminuire di 33mila unità il numero di disoccupati a fronte della previsioni degli analisti che parlavano di un aumento di 6mila unità.

 

Certo, il debito al 13% sul Pil e i 2,45 milioni di disoccupati non sono certo indicatori macro di cui andare fieri, ma il fatto che Bruxelles abbia bocciato il budget del governo britannico giudicandolo insufficiente nello stesso modo pregiudiziale con cui continua a spulciare i nostri conti dimostra che, alla fine, Londra e Roma restano i soli, potenziali grandi ostacoli al progetto egemone e suicida, per l’Ue e l’euro stesso, della Germania. Non dimenticando, poi, che il tentativo di attaccare la sterlina messo in campo dall’asse renano appare miseramente fallito e destabilizzare l’Italia significa mettere a repentaglio tutti i paesi Pigs più l’Irlanda, ovvero la tenuta stessa di Eurolandia e della moneta comune: quindi, occorre pensarci due volte prima di farlo.

 

Inoltre, andassimo in default come qualcuno vorrebbe o minaccia possa capitarci e magari venissimo espulsi dall’euro – ma non dall’Ue – come vorrebbe il buon Schauble nella sua idea di Nuova Europa, uccideremmo tutti i partner con l’export, diventando la Cina dell’Unione: lo facciano, se vogliono suicidarsi gli “amici” tedeschi. Roma e Londra, che già condividono le Borse valori dopo la fusione tra Lse e Borsa Italiana, collaborino di più e facciano, in sede Ue, maggiormente fronte comune: sono gli altri a dover aver paura in questo momento, la Francia perché abbandonata a se stessa dall’alleato-traditore, la Grecia che di fatto ancora non può contare su alcun piano di salvataggio reale e deve scendere dal 12,3 all’8% di rapporto debito/Pil facendo macelleria sociale e la Spagna, debole e ricattabilissimo presidente di turno dell’Ue, le cui banche sono una sorta di bomba a orologeria: approfittiamone, questo è il momento di alzare la voce e menare qualche “cazzotto” dopo anni di procedure d’infrazione, avvertimenti e altre smargiassate degli euroburocrati verso ‘’Italia.

 

Prima che sia tardi e il fronte a noi avverso si ricompatti e decida di attaccarci veramente, facciamo fronte comune con la Gran Bretagna in questa battaglia per la Nuova Europa. Che, a occhio e croce, non conviene a nessuno sia quella prefigurata da Berlino.