Fortuna che Ue e Fmi avevano salvato la Grecia e i suoi conti pubblici da incubo! Ieri è infatti schizzato di nuovo verso l’alto il differenziale fra il rendimento dei titoli di stato tedeschi e quelli greci: lo spread è arrivato a 426 punti base, il valore più alto da una settimana, dopo che l’altro giorno era risalito oltre i 400 punti a 406 punti base.



Per quanto le autorità europee professino ottimismo, i mercati hanno tutt’altra idea rispetto a quanto sta accadendo. E ne hanno ben donde. Basta rileggere alla luce di quanto sta accadendo le parole di George Soros, durante una lecture tenuta a Londra alcuni giorni fa: «I tedeschi hanno sempre fatto le concessioni necessarie per far avanzare il progetto europeista. Ora non è più così, ecco perché l’Ue è in uno stato di stallo».



Già, nonostante “Frau nein” Angela Merkel abbia abbassato i toni rispetto al salvataggio della Grecia, l’assegno tedesco deve essere ancora non solo staccato ma anche firmato: da Francoforte sono arrivate secche smentite alle voci che volevano il piano di salvataggio addirittura da 90 miliardi di euro – la Grecia deve rifinanziarne 110, 50 dei quali entro la fine dell’anno – e la Bundesbank manda segnali inequivocabili rispetto a quanto sta accadendo. Ovvero, di deciso c’è poco. Pochissimo.

Ovviamente è interesse di tutti in Europa evitare un default controllato della Grecia, di tutti tranne che della Grecia stessa. La quale, infatti, avrebbe tutto da guadagnare da una procedura di ristrutturazione del debito in stile uruguayano gestita unicamente dal Fmi: certo, al Fondo chiedono sacrifici in cambio dei soldi, ma Atene non è destinata ad anni di vacche magre anche dal piano europeo? Il quale, tra parentesi, espone il mercato a enormi sbalzi di umore: le montagne russe dello spread greco rispetto ai bund parlano infatti questa lingua. Anche perché la ricetta europea non fa che eliminare i problemi di liquidità nel breve termine, ma i rischi di insolvenza sul medio-lungo termine restano tutti quanti sul tappeto.



A Morgan Stanley stanno monitorando la situazione e il loro ultimo report dice chiaramente una cosa: «Questi problemi di insolvenza, generalizzati, potrebbero portare a una frantumazione dell’area euro e alla fine dell’unione monetaria». Ciò che vuole, sempre più chiaramente la Germania, nostalgica come non mai del suo marco e del ruolo guida del continente senza la noia di partner arretrati e indebitati come i Pigs o l’Irlanda. L’euro, signori, finirà entro il 2012, ma la sua crisi sistemica comincerà quest’anno con l’abbandono della moneta unica da parte di uno Stato membro.

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È scritto, i tedeschi ci stanno lavorando dal 2006 almeno e la crisi economica innescata due anni fa dal crollo di Lehman Brothers sta facendo il loro gioco. Giova ricordare infatti, qualche particolare. Se l’America ha creato le condizioni perché la crisi finanziaria la travolgesse, l’Europa cosa ha fatto negli ultimi anni per prevenire quanto sta accadendo nel suo sistema bancario? Nulla, nonostante nel corso del vertice informale tenutosi in Lussemburgo il 14 maggio del 2005 venne trovato un accordo a maggioranza su un unico punto: un memorandum d’intesa per la creazione di un piano di emergenza consistente nello scambio aperto e rapido di informazioni internazionali tra i membri su eventuali crisi in atto al fine di evitare la loro espansione al continente in una sorta di effetto domino, per fronteggiare un’ipotetica crisi finanziaria a livello europeo.

 

Il documento, facilmente reperibile sui siti istituzionali dell’Ue, si intitolava “Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra supervisori bancari, banche centrali e ministri delle Finanze dell’Unione Europea su situazioni di crisi finanziaria” e si basava su otto punti, sostanzialmente una riedizione rafforzata del precedente memorandum varato nel 2003.

 

Nonostante si sottolineasse che questo atto non appariva vincolante per l’autonomia di intervento dei vari paesi in caso di crisi, lo scopo dell’operazione era chiaro. Ovvero, il sistema è ormai globale e nessuno di noi è un’isola. Questo nel maggio 2005. All’epoca la notizia non suscitò particolare scalpore, anche se alcuni ambienti londinesi non presero particolarmente bene la excusatio non petita del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, affannatosi a tranquillizzare i cronisti sul fatto che l’accordo non significasse «la presenza concreta di minacce reali in tal senso a medio termine». Bluffava o lo pensava davvero?

 

In compenso, però, emerse che quella riunione decise che l’aprile dell’anno successivo si tenesse una simulazione di collasso bancario continentale sotto l’egida del Financial Services Committee a Francoforte. In sede Ecofin, insomma, si stava valutando l’ipotesi di una crisi finanziaria a livello europeo sul modello di quella che squassò l’Asia nel 1997-98 o di quella più limitata che nel 1992-94 toccò le regioni scandinave. A rendere il tutto ancora più credibile – lasciando in bocca un sapore di incombenza che le autorità invece negavano, Trichet in testa – fu poi la dinamica scelta per il piano di simulazione della crisi: stando agli studi dell’epoca, infatti, sarebbe stato il collasso di una grande banca operante a livello continentale a far scatenare l’effetto domino generale.

 

All’epoca in sede comunitaria si parlava, riferendosi all’accordo, di nulla più che di un’estensione dell’intesa già esistente tra banche centrali e regolatori (quello del 2003 citato in precedenza), sfuggì però ai più che questa “estensione” vedeva coinvolti anche i ministri delle Finanze dei 25. Sempre in seno a questa operazione gestita dall’Ecofin fu bocciata a larga maggioranza la proposta di creare un super-comitato centrale – con sede a Bruxelles – che monitorasse tutti i possibili scenari di crisi interni all’eurozona.

 

«I comitati non risolvono le crisi», fu il giudizio senza appello del capo del comitato per i servizi finanziari dell’Unione, l’olandese Kees Van Dijkhuizen. Il quale, interpellato dal Financial Times dopo il vertice del 14 maggio del 2005, disse: «Speriamo di occupare il nostro tempo con questioni che non ci vedranno mai diretti protagonisti, ma visto quanto accaduto in Asia e in altre parti del mondo non possiamo dire con certezza che questo non succederà mai da noi».

 

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E come andò quella simulazione? Il 9 settembre a Helsinki si tenne una nuova riunione dell’Ecofin tesa proprio a valutare i risultati ottenuti: nessun giornale sembrò dare troppa importanza alle parole del presidente finlandese, Tarja Halonen, il quale disse in maniera molto diplomatica che il sistema Ue di vigilanza e intervento era assolutamente inadeguato. Il 12 settembre, tre giorni dopo, un solo giornale, European Report, sottolineava la pesantezza della situazione con un articolo dal titolo “L’Europa si scopre impreparata a gestire una crisi finanziaria”. Da allora, cosa è accaduto?

 

Alla riunione dell’Ecofin del 9 ottobre 2007, a scandalo Northern Rock già scoppiato, si discuteva di eccessive procedure sul deficit di Gran Bretagna e Repubblica Ceca, mentre il 23 gennaio di quest’anno, a crisi ormai esplosa, in Slovenia si tornava a parlare di necessità di rafforzare la cooperazione sulla supervisione. Parole. Solo parole. Come quelle, profeticamente scritte da Deutsche Bank in un outlook per gli azionisti istituzionali pubblicato più o meno nello stesso periodo, ovvero la primavera 2005: nel 2010 uno stato europeo abbandonerà l’euro dando vita a una crisi sistemica.

 

Purtroppo, qualcuno aveva già capito tutto e stava preparando il terreno. Le parole di George Soros, giunte proprio in questi giorni, devono essere un campanello d’allarme: uno tra Grecia e Spagna, entro quest’anno, sarà costretto ad accettare le non vincolanti condizioni che la Germania voleva porre a corredo del piano di salvataggio di Atene, ovvero fuori dall’euro chi trucca i conti o non li tiene in ordine a livello di disciplina fiscale.

 

Manca poco e l’atteggiamento della Bundesbank ci fa capire che ormai siamo allo showdown: il piano per salvare la Grecia, semplicemente, non serve a nulla se non a costringere Atene a dirci addio e chiedere protezione al Fmi. La fine del sogno monetario europeista è ormai all’orizzonte, cosa ci aspetterà dopo e davvero difficile dirlo.

 

Per Morgan Stanley, «quello greco è un pessimo precedente per tutti gli altri paesi membri. Un precedente che potrebbe trasformare l’area euro in una zona di alta pressione inflazionistica e debolezza monetaria. Nazioni con una forte stabilità come la Germania potrebbero decidere che per loro sarebbe meglio un unione monetaria più piccola ma più rigida: ma visto che il Trattato di Maastricht non permette l’espulsione di nazioni dall’area euro, la Germania potrebbe optare per un’altra scelta. Ovvero, abbandonare essa stessa l’area euro per creare una valuta più forte».

 

L’eventuale richiesta di opt-out greco o spagnolo, bocciata in sede comunitaria, sarebbe di fatto solo l’alibi per Berlino per andarsene: lo pensano a Morgan Stanley. Meglio dargli retta seriamente questa volta. La danza di spread e cds sul sovereign debt di questi giorni non rappresenta nulla di positivo, infatti.