Gli stress tests ci hanno detto che le banche europee sono sane. Non la pensa così Standard&Poor’s che nel suo ultimo report dice a chiare lettere che gli istituti del Vecchio Continente sono a rischio di un circolo vizioso a causa del combinato congiunto di paure per il debito sovrano e stress finanziari, contingenze che di fatto si autoalimentano: «I timori del settore bancario stanno erodendo la credibilità del credito sovrano, situazione che sta riducendo la capacità sia reale che percepita da parte dei governi di supportare gli istituti in difficoltà».
«La necessità di finanziamento delle banche europee è enorme, anche perché l’industria è più ampia e sviluppata qui che in Asia o Usa. La maggior parte dei mutui e dei prestiti personali sono ancora nei balance sheets e necessitano di finanziamento. Questo contrasta con quanto accade in Usa, dove le istituzioni finanziarie pongono in sicurezza questi prestiti, che quindi non necessitano di finanziamento», ha scritto nero su bianco Scott Bugie, analista del credito di S&P, secondo cui il totale delle liabilities ammonta a 23 trilioni nell’eurozona e 8 trilioni per Regno Unito, Svezia e Danimarca.
Per Standard&Poor’s, la politica di prestito d’emergenza posta in essere dalla Banca Centrale Europea ha inavvertitamente creato una trappola. I suoi prestiti a tre mesi hanno avuto l’effetto di concentrare il rischio di roll over per una larghissima parte di debito. Le banche potrebbero trovarsi obbligate a dover rifinanziare questi prestiti in un mercato ultra-affollato, ponendosi in competizione con Stati affamati di debito.
«I prestiti della Bce hanno contribuito a un accorciamento della maturazione delle liabilities: il risultato di questo è un crescente missmatch nel finanziamento per l’industria bancaria europea. Questo sta accadendo proprio mentre i regolatori stanno preparandosi a introdurre standard per la liquidità molto più stringenti: e proprio questo è uno dei punti di maggior vulnerabilità per il settore», scrive S&P. L’Olanda ha già posto fine alle garanzie di Stato sui debiti, obbligando le proprie banche a rivolgersi sul mercato mentre i bonds andavano a scadenza, altri stanno seguendo l’esempio: più o meno 1 trilione di euro di questo tipo di debito nell’eurozona e in Gran Bretagna andrà in scadenza nel 2012.
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«Il bisogno di rifinanziarie le maturazioni dei debiti garantiti sta diventando stringente per molte banche, gli istituti più grandi e forti posso farcela mentre gli altri saranno costrette a languire in un mercato del finanziamento two-tier». Per S&P le banche greche hanno visto una dispersione di depositi dei propri clienti dall’inizio della crisi per un valore compreso tra 10 e 29 miliardi di euro, qualcosa che fluttua tra il 5 e il 10 per cento del totale: di fatto, sono state sbattute fuori dai capital markets.
La Bce sta cercando di puntellare il paese con un’esposizione di 140 miliardi di euro al debito greco in una forma o in un’altra: l’esposizione verso la Spagna è di 126 miliardi di euro – la maggior parte della quale verso soggetti deboli come le cajas – e di 71 verso l’Irlanda. Insomma, la via d’uscita a questa situazione appare sempre più un campo minato. La terapia d’urto della Bce con i suoi 750 miliardi di euro a pioggia di fatto ha solo fatto guadagnare un po’ di tempo, ma ha avuto come effetto collaterale la sottolineatura presso i mercati del traballante stato della salute fiscale dei paesi Ue.
Oltretutto, nel suo ultimo report la Bce diceva chiaramente che le condizioni del credito nell’eurozona sono peggiorate notevolmente e velocemente, con una restrizione netta dell’11% sui prestiti da parte degli istituti: dati emersi a fine giugno, dopo il piano di salvataggio Ue-Fmi ma prima degli stress tests per le banche.
Insomma, ciò che emerge è che la crisi del debito sovrano ha effetti diretti e pesanti sul credito: se le aziende finiranno i prestiti e non potranno contare su un mercato bancario in grado di venire loro incontro, è facile che la ripresa perda forza – già poca – e il 2011 porti con sé un rischio double-dip.
Inoltre, i segnali di rallentamento in Usa e Cina di cui parlavamo giovedì scorso rischiano di essere contagiosi in una situazione già di per sé di debolezza del sistema macro: il consolidamento fiscale per il Club Med non è una tantum, deve andare avanti per anni. Questo perché se i mercati cominceranno a porre domande sulle traiettorie del debito di questi paesi, il sistema bancario subirà un nuovo test, questa volta serio: solo in Spagna c’è un trilione di euro di debito privato legato a un unico assets, la proprietà.
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Occorre sperare nella ripresa globale come traino per i paesi più deboli, di modo che una volta fuori dalle secche del debito sovrano possano permettersi di salvare le banche: su questa necessità, statene certi, non c’è da discutere. Anche perché la follia collettiva della finanza creativa è ben lungi dall’essere terminata dopo la scoppola presa con la crisi: stando a quanto denunciato dalla Reuters, infatti, Citi e Goldman Sachs venderanno 788,5 milioni di dollari in commercial mortgage backed securities, i famigerati derivati sui mutui ipotecari americani. Si tratta della più grande operazione da quando il mercato dei Cmbs è stato riaperto, lo scorso dicembre, la sesta in ordine cronologico.
Un mercato che ha un bisogno disperato di liquidità: nei prossimi anni andranno a scadenza 1,2 trilioni di dollari in commercial property loans, strumenti piuttosto usati Oltreoceano per esigenze di rifinanziamento. Secondo Credit Suisse, il volume dei Cmbs scambiati finora è di circa 1 miliardo di dollari, rispetto ai 190 del 2007: poco, ma il segnale di follia è chiaro, i nuovi derivati saranno venduti con una loan to value ratio (la percentuale di valore stimato dell’immobile che deve garantire il debitore alla banca) di circa il 53,7%, più elevata rispetto all’epoca del boom.
Il rating dei Cmbs nuovi di zecca verranno espressi da Moody’s ma non da S&P, una volta leader nel settore, in quanto sembrerebbe molto più prudente rispetto alla sorella maggiore verso l’ennesimo veicolo per gonzi. Più di tre quarti dei Cmbs messi in circolazione dalle due banche d’affari avranno, come copertura, prestiti su proprietà retail, come, ad esempio, un prestito da 100 milioni di dollari sulla sede di Barneys New York, leggendaria meta dello shopping sulla Madison Avenue.
Evviva, in assenza di crescita e dati macro da lacrime si torna a puntare sul casinò dei derivati: la crisi, davvero, non ci ha insegnato nulla. Tanto più che i prezzi di oro e petrolio stanno lanciando segnali molti simili a quelli giunti nell’estate precedente al crollo di Lehman Brothers, almeno stando al giudizio di Simon Derrick, capo del monetario alla Bank of New York Mellon.
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Nonostante sia tentante accettare la logica per la quale il calo del 7,7% nel prezzo dell’oro dal 21 giugno scorso sia dovuto alla rinnovata salute dell’euro, è più realistico pensare che il calo sia cominciato dopo la pubblicazione del dato ECRI sullo stato di salute – precario – dell’economia Usa. Insomma, un declino dovuto al deterioramento del sentiment rispetto agli outlook economici e alla minaccia di pressioni deflazionistiche in aumento.
La domanda d’oro è calata del 30% in India lo scorso anno e la quota potrebbe raggiungere il 40% il prossimo anno, stando almeno alle valutazioni della Bombay Bullion Association. Insomma, l’estate ci dirà molto di più rispetto a quanto ci attende nel secondo semestre dell’anno. Difficile, a bocce ferme, essere ottimisti.