Mentre Moody’s, nel suo ultimo report, dice chiaramente che il tempo dei rating AAA per le grandi potenze europee è ormai al termine, devastate come sono da debiti pubblici fuori controllo (gli Usa sono, di fatto, in bancarotta) che nell’arco massimo di dieci anni ci regaleranno un panorama macro-economico completamente nuovo, un paio di segnali per chiarire la situazione che ci attenderà a settembre-ottobre sono giunti da Irlanda e Cina. Ovviamente, in maniera silenziosa.
Già, proprio quell’Irlanda finita quasi in fallimento e divenuta la seconda “i” di quello sgradevole acronimo anglosassone che è Pigs. L’ultima asta di bond è andata bene e le misure draconiane che il governo di Dublino ha dovuto imporre alla popolazione stanno dando i primi risultati a livello di conti pubblici (già, perché l’Irlanda non ha potuto godere del trattamento di favore offerto alla Grecia, chissà come mai, vendetta per il tira e molla sul Trattato di Lisbona, forse?), ma soprattutto per un export che non conosce crisi.
Senza tema di smentita possiamo dire che l’Irlanda rischia di salvarsi affondando gli altri Pigs grazie a vanità femminile, depressione, obesità e impotenza. Non ho preso troppo sole, tranquilli! Dove viene prodotto il famoso e famigerato Botox, amato dalla casalinghe disperate di tutto il mondo? Nella contea di Mayo. E la Siburtramina, pillola miracolosa per dimagrire? Dalla Abbott a Sligo. E il Viagra? E ancora anti-depressivi, anti-età e quant’altro la farmaceutica del superfluo sappia offrire al mondo, Est come Ovest, per sentirsi eternamente giovane: tutto prodotto in Irlanda. E, da lì, esportato.
Ecco perché nel biennio della recessione, 2008-2009, quando Germania e Giappone crollavano, l’export irlandese batteva allegramente la crisi: quei medicinali sono a prova di crollo e soprattutto pesavano per il 57% dei 103 miliardi di euro di export irlandese dello scorso anno. A questo poi vanno unite la presenza di giganti di come Intel, Facebook, Paypal, Microsoft e Google: grazie alle tasse del 12,5% per le aziende, certo ma anche grazie a una serie politica industriale durante gli anni Novanta. Insomma, un’economia aperta al mondo, realmente globale che potrebbe consentirle di uscire pressoché indenne dalla trappola dell’eurozona e di battere il crollo della domanda interna a fronte del 13% di tagli agli stipendi pubblici imposti dal governo.
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“Maledetta globalizzazione!”, griderebbe qualche colbertista della prima e dell’ultima ora. Insomma, questa flessibilità ha consentito all’Irlanda di recuperare un 20-30% di competitività lavorativa, porre in essere tagli sia quest’anno che il prossimo senza le scene da quasi guerra civile delle piazze greche e soprattutto evitare la spirale debito-deflazione. Merito quindi di una coesione sociale quasi scandinava del popolo irlandese, da sempre temprato da carestie e immigrazione forzata: la vendetta, si sa, è un piatto che è meglio gustato freddo, quindi il governo irlandese è avvertito riguardo l’esito delle prossime elezioni.
Ora, però, siano la responsabilità e il bene comune a trionfare. Greci e soci, italiani compresi, imparino la lezione. Anche perché, nel mezzo della crisi, il governo ha agito affinché aprire un’azienda o un’impresa in Irlanda, da sempre conveniente anche a livello fiscale, oggi costa il 25% in meno rispetto a tre anni fa, inizio del meltdown globale. Certo, la situazione è ancora pesante: il deficit quest’anno toccherà il 18,7% del Pil, il 12% togliendo da questo dato il salvataggio per Anglo Irish Bank, gli irlandesi cominciano a emigrare di nuovo verso Australia, Canada e soprattutto Usa, il tasso di disoccupazione ha toccato il 13,7% a luglio, le imposte sul reddito sono giù del 9% rispetto allo scorso anno, l’economia interna si è contratta del 20% in termini nominali, mentre lo stock di debito è cresciuto.
Il Fmi si attende che il debito toccherà il 96% del Pil entro la fine del 2011: sembrano dinamiche da 1930, inutile negarlo. C’è però, come sempre, un “però”. Ieri le Borse hanno virato in positivo dopo il rialzo delle stime di crescita tedesche da parte della Bundesbank: insomma, la locomotiva è tornata e i buoni dati del secondo trimestre dell’eurozona parlano questa lingua. Peccato che in chiusura di contrattazioni le borse continentali siano crollate sulla scia dei dati Usa e che questi dati si basino sul fatto che la Germania esporta a nastro, grazie a una valuta ora ancora conveniente, Mercedes e Bmw in Cina mentre Italia, Spagna e Portogallo sono lasciate a margini di quello che possiamo chiamare un sistema double-edged, ormai a doppia velocità.
La Banca Centrale portoghese ha operato un downgrade della crescita per il 2011 a solo lo 0,2% e si attendono, per la seconda metà dell’anno prossimo, nuove tempeste legate al debito da ripagare (a caro prezzo, visti i rendimenti), mentre la situazione spagnola è stata descritta nell’articolo pubblicato ieri. Per questo il misto di stoici tagli alla spesa sociale ed export che non conosce crisi potrebbe salvare l’Irlanda e permetterle di restare legate al carro monetario dell’eurozona 1, quella che ha come benchmark il nuovo marco, ovvero l’euro come lo conosciamo.
Portogallo e Spagna riusciranno a chiudere il loro gap, invece? E la Grecia? Riusciranno i cervelloni dell’Ue a far saltar fuori dal cilindro il corrispettivo ellenico del Viagra per l’export irlandese? Ne dubito, molto. Ma, come dicevamo, interessanti news arrivano anche dalla Cina, che non si limita a comprare in massa Bmw e Mercedes facendo fare gli straordinari alle fabbriche tedesche.
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Un report di Credit Suisse, infatti, lancia l’allarme sul possibile “margin hit”, ovvero un duro colpo a margini di profitto, per aziende Usa ed europee nel paese del Dragone nei prossimi dodici mesi, soprattutto per quanto riguarda l’elettronica, l’abbigliamento e il retail a causa dell’aumento dei costi. Marchi come Footlocker, Liz Claiborne e Office Depot potrebbero conoscere, nel worst case scenario, aumenti dei costi del 20%.
Ma non solo: i guadagni per azioni di Jones Appareal potrebbero crollare del 72%, 50% per Maidenform Brands e Dollar Tree, 42% per Macy’s, 39% per Target e 20% per Polo Ralph Lauren: insomma, per Credit Suisse, «costo del lavoro e per i trasporti sono la maggior preoccupazione per queste aziende quotate, la cui dirigenza deve fare i conti con la sottovalutazione da parte degli investitori». Insomma, i tempi del “lavori 20 ore per una ciotola di riso” sono finiti anche in Cina, cari signori!
General Electric lo scorso maggio a riportato in Kentucky dalla Cina la sua produzione di riscaldatori per l’ibrido dopo aver ottenuto l’ok dei sindacati Usa a una riduzione salariale: un gap salariale favorevole, minori costi di trasporto e tempi di consegna più brevi hanno fatto il miracolo della delocalizzazione al contrario. D’altronde gli stipendi nel settore manufatturiero in Cina dieci anni fa ero di 1000 dollari l’anno, oggi sono in media di 3900 e le paghe nei distretti industriali di Pearl e Yangtze saliranno ancora dopo gli accordi stretti con aziende come Foxconn, Honda, Toyota e Omron.
Per Bruce Rockowitz, capo del gruppo logistico pan-asiatico Li&Fung, la pressione dei costi sta salendo ovunque: «Non è solo la Cina a risentirne ma tutta la regione». Nuova ondata inflazionista per i beni importati verso Occidente? Costrizione della domanda ai margini per Europa, Usa e Giappone? Un misto dei due? Difficile dirlo ora. Di certo c’è che il 55% delle aziende straniere presenti in Cina intende delocalizzare in Bangladesh, Vietnam, Indonesia e altre regioni low-cost.
L’indice Shanghai Composite per le equities cinesi da un anno a questa parte resta guardingo sul rischio di “margin squeeze” e la Borsa è scesa del 20% dallo scorso novembre. L’erosione del margine di profitto sull’export, al 3% attualmente, spiegherebbe quindi la politica di annuncio e attesa delle autorità cinesi rispetto alla rivalutazione dello yuan concordata con gli Usa dopo gli anni di peg fisso con il dollaro, vista anche la politica di contrazione del credito scelta da Pechino per sgonfiare la spaventosa bolla immobiliare.
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A tal fine, ovvero svalutare lo yuan, negli ultimi tre mesi Pechino ha comprato attraverso il suo braccio di investimento internazionale, SAFE, un numero record di bonds giapponesi, coreani e di altre nazioni asiatiche: altro che diversificazione da Usa ed Europa, è l’ennesimo dumping monetario (e quindi commerciale) mascherato. Insomma, la seconda economia mondiale fa i conti con i costi che questo status impone.
Che fare? Un blitz di stimolo rischierebbe di vanificare lo sforzo per bloccare la bolla immobiliare e porterebbe molto facilmente con sé una fiammata inflattiva, occorre maneggiare la situazione con cura visto che il quadrante peggiore del ciclo economico cinese è alle porte: il rischio è raggiungere l’India nella lista dei giganti bolliti.
La politica di export sfrenato ha distolto l’attenzione dalla necessità di crescita della domanda interna, i consumi sono crollati dal 47% del Pil del 1998 all’attuale 25%: uno sbilancio inaccettabile e alla lunga ingestibile in tempi di rallentamento e crisi globale. Anche perché, stando a China Daily, il 70% degli appartamenti ad Hainin, il 66% a Pechino e il 51% a Shanghai sono sfitti, in base ai dati incrociati sul consumo di elettricità: sono in mano, insomma, a investitori e speculatori. Siamo alle soglie di un picco di bolla simile a quelle vissute negli anni Novanta a Taiwan, Hong Kong e Singapore: auguri a Pechino. E a tutti noi.
P.S. Ieri abbiamo appreso dalla stampa che Stanley Druckenmiller, il banchiere che nel 1992 aiutò George Soros «a sfasciare la sterlina» attraverso una scommessa speculativa al ribasso, ha annunciato il suo ritiro a causa della delusione patita per i risultati conseguiti dal suo fondo durante quest’anno di estrema volatilità del mercato. «Guarda che incertezza. Stiamo per affrontare l’inflazione o la deflazione? Siamo su o giù? Cresciamo o no?», avrebbe detto a un funzionario della Fed.
Onore delle armi al vecchio guerriero: se non ci capisce nulla uno come lui, come potete sperare che ci capisca qualcosa un povero cristo come il sottoscritto in questa enorme crisi senza senso e direzione. Cerchiamo dati e qualche luce, ci muoviamo a tentoni leggendo segnali finanziari e macro. Alla fine, però, resta un terno al lotto. Con poche certezze. Se non quella che il tunnel è ancora lungo.