Spiace essere ritenuti profeti di sventura ma quando la realtà è testardamente palese, appare ineluttabile. Nell’articolo di ieri mettevamo, infatti, in guardia dal fatto che Anglo Irish Bank, l’istituto irlandese semi-nazionalizzato, potesse divenire l’agnello sacrificale del governo di Dublino per evitare che la nuova ondata di crisi bancaria e di debito colpisca mortalmente il paese: ieri, puntuale, è giunto l’annuncio della break-up dell’istituto, una parcellizzazione che vedrà di fatto la banca ridotta all’osso e alcuni rami di attività annullati.

Brian Lenihan, ministro delle Finanze irlandese, ha dichiarato che l’istituto sarà spaccato in due, una deposit bank sana e una bad bank che dovrebbe vendere assets e chiudere posizioni e operazioni: «Per recuperare la reputazione del sistema finanziario irlandese è essenziale porre fine al problema rappresentato da Anglo Irish Bank», operazione di cui, però, Lenihan non ha quantificato i costi.

L’Ue ha già definito «positiva» la decisione irlandese mentre i cds di Anglo Irish Bank sono schizzati di72 punti base a quota 785 ieri mattina, chiaro segnale che il governo di Dublino potrebbe sfuggire dai debiti della banca in ossequi alla politica di appeasement verso l’opinione pubblica: di fatto una replica di quanto fatto dal governo islandese nei confronti delle tre cosiddette “viking raiders”. La mossa, obbligata, è giunta dopo che il rendimento del bond decennale irlandese è salito sopra il 6 per cento per la prima volta dal lancio dell’euro: lo spread con i bund tedeschi è salito al record di 379 punti base.

Ma la situazione è più o meno simile, a livello di sofferenze, per tutti i paesi dei cosiddetti Piigs: i cds di Portogallo, Spagna, Italia ma anche Belgio (sempre alle prese con l’ingovernabilità) hanno continuato a salire questa settimana e la cosiddetta “stress gauge” di Markit registra livelli più alti di quelli prezzati nel pieno della crisi, ovvero prima del piano di salvataggio da 440 miliardi di euro della Bce. Joachim Fels, economista capo a Morgan Stanley, ha dichiarato che «le sofferenze hanno toccato un punto per il quale uno o più governi potrebbero dover a breve mettere mano a un meccanismo di salvataggio. Infatti, né la crisi del debito sovrano europeo né quella del settore bancario sono state risolte e, anzi, continuano mutualmente a rafforzarsi l’una con l’altra. Se a questo uniamo che gli stress tests hanno fatto tutto tranne che rafforzare la fiducia, il quadro pare completo».

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Una situazione che comincia a far traballare pesantemente il già non granitico europeismo degli irlandesi. In un fondo pubblicato dall’Irish Times, Fintan O’Toole, a fronte del dei costi di salvataggio già saliti a 25 miliardi di euro, poneva la seguente domanda: «La scelta ora è drastica: dobbiamo essere "buoni europei" al costo di distruggere la nostra società o dobbiamo diventare "cattivi europei", perdendo la fiducia dei nostri partner europei ma salvare noi stessi? Si arriva ad un punto di una crisi esistenziale in cui anche i paesi più mansueti devono porre i propri vitali interessi nazionali prima del resto. Noi siamo giunti a quel punto».

 

Per Alessandro Capuano, managing director di IgMarkets Italia, società leader nel settore dei cfd, contratti per differenza su indici, forex e commodities, la questione irlandese

 

«è seria ma nettamente diversa da quella greca, per più motivi anche se in effetti questo progetto bad bank ricorda molto Alitalia, ovvero scaricare i debiti sui contribuenti. Dublino ha infatti prospettive di recupero che Atene non ha, certo pagherà duramente l’austerity fiscale ma ricordiamoci che la Grecia è un paese in cui solo sei cittadini dichiaravano più di un milione di euro. Certo, il sistema finanziario irlandese è massacrato ma ponendo sul piatto le emergenze attuale, ritengo che l’intervento dell’Ue e il controllo dei regolatori rendano il rischio finanziario sistemico minore rispetto a quello del debito sovrano. Quello è il vero rischio, anche perché, se non è quest’anno sarà il prossimo, la Grecia dovrà andare in default. Fino ad oggi il problema è stato politico, visto che in base a un ragionamento prettamente economico Atene, in maggio, sarebbe andata tranquillamente in default e per chi aveva in mano quei titoli avremmo detto "pazienza". Il guaio non è il default in sé: l’Argentina, la Russia, il Brasile sono andati in default e sono ancora lì, la Grecia invece è all’interno del contesto euro, questo rende imprevedibile l’effetto che un default sovrano potrà avere. Detto questo, il default greco è ineluttabile: al di là del rapporto debito/Pil alto, il dato grave è la raccolta fiscale insufficiente per un piano di risanamento serio».

 

Ma non solo l’Irlanda pare giunta al cosiddetto "punto di non ritorno". Molti paesi dell’Europa continentale, ma soprattutto dell’Est, rischiano di pagare infatti a caro prezzo la quotazione record del franco svizzero, giunto mercoledì al massimo di 1,2801 sull’euro. Le banche che hanno prestato denaro ai propri clienti denominando questi prestiti in franchi, quindi, rischiano di soffrire: e non poco. Prima del 2008, i prestiti in franchi svizzeri erano molto in voga poiché gli istituti gli promuovevano a spron battuto giudicando la moneta elvetica più stabile e prevedibile negli andamenti rispetto a monete locali dell’Est o allo stesso euro.

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Ma ora, con l’economia svizzera cresciuta dell’1 per cento nel primo trimestre e surplus commerciale da record, il franco si sta apprezzando molto velocemente e, dopo i massicci acquisti di euro dei mesi scorsi, la Banca centrale svizzera non sembra intenzionata ad intervenire più per bloccare l’ascesa. La quale sta creando guai seri ai cittadini dei paesi dell’Europa centrale e dell’Est, i cui salari hanno conosciuto una netta diminuzione in termini reali e le cui monete sono crollate contro il franco, per ripagare i loro prestiti.

 

Ungheria e Polonia hanno la maggior parte dei loro mutui denominati in franchi svizzeri ma Varsavia non ha esperienze di recessioni dalla crisi cominciata nel 2007: per questo, «i problemi sono seri per l’Ungheria, più che per la Polonia», ha dichiarato Bartosz Pawlowski, analista strategico per i mercati emergenti a BNP Paribas, secondo cui «i rischi anche per il settore finanziario sono significativi, sia per l’ipotesi di svalutazione delle valute regionali sia per un rischio di ulteriore apprezzamento del franco». Il fiorino ungherese ha toccato un record negativo verso il franco mercoledì ma nonostante questo il regolatore finanziario nazionale ha dichiarato che non ci sono ragioni per interventi specifici.

L’Ungheria, nell’area, è il paese più esposto ai prestiti denominati in franchi, moneta che rappresenta il 39 per cento dei prestiti al settore privato e il 60 per cento del totale dei mutui, stando ai calcoli di Simon Quijano-Evans, analista presso la Cheuvreux EEMEA. Per quanto riguarda la Polonia, il paese registra il 22 per cento di prestiti al settore privato denominato in franchi e il 60 per cento dei mutui. Nell’eurozona, le banche austriache forniscono il 40 per cento del credito in franchi svizzeri, parzialmente a persone che abitano nell’area ovest del paese e che lavorano in Svizzera.

 

Il rischio di non-performing loans, quindi, torna alto, soprattutto a fronte del rafforzamento del franco e del rischio correlato del Libor del franco. Per Alessandro Capuano, quello rappresentato dal franco svizzero è un doppio indicatore: «Prima cosa, il rischio sistemico per quei prestiti e mutui denominati in franchi esiste, può essere un problema ma il problema è più generale. Anche in giorni di buone contrattazioni per le Borse, come ieri, continuiamo a vedere franco da record e oro altissimo: questa costante componente negativa mi fa dire che poco è cambiato sui mercati a livello di fiducia. Certo, i fondi possono speculare sul franco in attesa di eventuali mosse della Banca Centrale svizzera ma sull’oro, cosa fanno se non cercare un bene rifugio dall’instabilità? Chi vede nero per il futuro dei mercati e dell’azionario, trova conferme in questi dati incontrovertibili. Quando vedrò le Borse chiudere a +3 e l’oro a -5, allora dirò che la tendenza è cambiata».

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Gli stress test, in questo senso, certo non hanno sortito l’effetto sperato di tranquillizzare i mercati.

 

«E non avrebbe potuto che essere così, visto che la non credibilità degli stress test, paradossalmente, non è una cosa nuova, si sapeva da subito per il semplice fatto che non hanno simulato lo scenario di default di uno Stato, situazione ora contingente. Per questo il mercato picchia sui finanziari, titoli dai quali per ora è meglio tenersi alla larga».

 

Perché, quindi, ci si dovrebbe affidare o scegliere come opzione il mercato dei cfd?

 

«Per una semplice fatto, correlato alla situazione che ho appena delineato. Con noi è più facile operare su valute sia per traders che per investitori ma soprattutto sulle commodities, in primis quei beni rifugio tanto richiesti. Con noi operare sull’oro è semplice e rapido, si apre la posizione e si opera mentre se andate in banche chiedendo di mettere oro nel vostro portafoglio di investimenti cosa avete? Etf, magari o comunque operazioni marginali e con difficoltà che con i cfd non si riscontrano. Siamo in un periodo di disaffezione verso l’azionario, si va – per usare un termine poco ortodosso, più sull’esotico e per questo vediamo che le valute dei cosidetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina ), i mercati emergenti, entrano sempre di più nei portafogli d’investimento. Queste valute non sono più periferiche ma rappresentano un tema dominante sui mercati, le faccio un esempio che riguardo la mia azienda. Fino a poco fa il real brasiliano non era richiesto, non aveva clienti mentre ora c’è richiesta: certo, non siamo al livello dell’euro/dollaro ma chi vuole operare in Brasile, comprare azioni deve avere i real. Il rischio palese che una volta avrebbe tenuto lontani gli investitori, ora è stato soppiantato dalla consapevolezza che i paesi Bric sono già il traino dell’economia globale».

 

 

Insomma, come vedete, qualche opportunità esiste anche in tempo di crisi. Ma ricordate – e IGMarkets, azienda serissima, lo ricorda in ogni suo prospetto ma anche sui banner e negli spot pubblicitari – che con i cfd «le perdite possono superare, anche di molto, il capitale investito». Quindi, sempre stop loss e cautela nello scegliere gli operatori.