Qualcosa, di sinistro, si muove. Il commissario europeo agli affari economici, Olli Rehn, si è sentito in debito di ribadire che «tra i paesi dell’area euro non ci sarà alcun caso di insolvenza sui pagamenti. I costi potenziali, sia a livello economico che politico di un evento di questo genere sarebbero così devastanti per l’area euro e l’Unione europea che faremo tutto quello che è necessario per impedirlo. E sono sicuro che riusciremo ad evitarlo. Non ci sarà alcuna ristrutturazione del debito in Grecia, né in alcun paese dell’area euro», ha concluso.



Una procedura di ristrutturazione del debito, infatti, presuppone la dichiarazione di insolvenza o default: l’allarme rendimenti di cui parlavamo nell’articolo di ieri stanno facendo suonare le campane anche a Bruxelles. Ieri, d’altronde, alcune tensioni si sono riaffacciate sui titoli di Stato di Irlanda e Portogallo, altri due paesi considerati periferici sull’affidabilità creditizia nell’area valutaria, tensioni innescate da dati deludenti sull’attività delle imprese dell’area euro che a settembre è calata ai minimi da sette mesi. Resta una domanda: dove troverà l’Ue i soldi per evitare le ristrutturazioni del debito, insomma per non mandare nessuno in default?



Qualche mese e Olli Rehn ci darà una risposta. Tardiva. Il perché è presto detto: il Prodotto interno lordo dell’Irlanda nel secondo trimestre 2010 ha subito una contrazione dell’1,2% rispetto al periodo precedente, con un dato aggregato che vede il calo all’1,8% su base annua. Lo confermavano ieri i dati dell’Ufficio centrale delle statistiche di Dublino, riportate dall’agenzia Bloomberg: il calo del Pil irlandese ha stupito gli esperti, che si aspettavano una ripetizione della performance positiva del primo quarto dell’anno, in cui l’Irlanda era tornata a crescere. Invece, downside spiral.



Con l’aggravante della notizia che vedrebbe il governo irlandese intento a considerare un’opzione differente per Anglo Irish Bank che eviti lo scorporo e quindi la creazione della bad bank, di fatto un costo che graverebbe sui contribuenti: insomma, Dublino starebbe per dare il via libera alla banca per un buy back del debito subordinato a un’acquisizione di azioni a prezzo “punitivo” per raggranellare capitale.

In parole povere, è brutto dirlo, una sorta di default sotto altra forma: attualmente la banca ha 2,45 miliardi di debito subordinato e già lo scorso anno aveva dato vita a un’operazione di buy back a livello di 32 centesimi per euro. In questo modo lo Stato risparmierebbe circa 2 miliardi di euro ma la parola definitiva passa all’Ue: Bruxelles darà o meno l’ok a questa operazione da ultima spiaggia? Non fatevi troppe illusioni, purtroppo è soltanto un accanimento terapeutico: uno tra Irlanda e Portogallo sarà costretto a ristrutturare il suo debito, il salvataggio blindato della Grecia da parte di Germania e Francia reclama un agnello sacrificale. Brutte news davvero, in linea con il resto della giornata di ieri.

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«Hai letto il report di Uralsib?». Nell’arco di un’ora, ieri mattina, mi sono sentito rivolgere questa domanda almeno dieci volte da dieci persone differenti: gestori di fondi, traders, operatori, colleghi della stampa finanziaria. Sì, l’avevo letto. E non mi era piaciuto affatto. Anzi, mi aveva proprio guastato la colazione.

La banca moscovita, infatti, avvertiva a chiare lettere che la metà del raccolto di patate dell’intera Russia era andato perso e che la crisi del grano che ha colpito l’area del Mar Nero – granaio che rifornisce un quarto dell’export globale – a causa degli incendi devastanti di questa estate si protrarrà per un secondo anno. Insomma, un disastro. Il prezzo del grano è già aumentato del 70% da giugno a oggi, raggiungendo i 7,30 dollari per bushel: «Speravano che la situazione si sarebbe normalizzata a settembre ma non è andata così: e, anzi, molte altre commodities stanno unendosi al gruppo dei rialzisti», ha dichiarato Abdolreza Abbassanian, responsabile per il settore grano alla Fao.

 

Per ora i livelli della crisi del 2008 sono ancora lontani – all’epoca infatti il bushel raggiunse i 13 dollari – e gli stocks globali sono ancora salvi per il 22%, ma la situazione sta peggiorando: «Non siamo ancora in una crisi vera e propria, ma gli equilibri sono precari. Se la Russia e l’Ucraina dovessero conoscere un altro anno nero, a quel punto si dovrà pesantemente mettere mano agli stocks», sentenzia Abbassanian.

 

Ancora più cupo il quadro prospettato da Chris Weafer, capo economista della Uralsib, secondo cui il raccolto di grano russo quest’anno si attesterà attorno ai 60 milioni di tonnellate, a fronte di un consumo interno di 75 milioni e di stocks di emergenza per 9,5 milioni: «Pensiamo che la Russia avrà necessità di 17 milioni di tonnellate e dovrà importarle». E questa è la nota negativa: se infatti i mercati hanno digerito il bando all’export russo fino al 2011 imposto dal Cremlino (anche attraverso l’aumento dei prezzi), nessuno aveva messo in conto il rischio determinato dal fatto che la Russia stia per tramutarsi in un sostanziale importatore.

 

Luke Chandler di Rabobank conferma le previsioni negative: «A questo punto non possiamo parlare di sostanziale ripresa dei raccolti in Russia, poiché gli incendi hanno danneggiato a tal punto il suolo da non rendere possibile la semina di quest’inverno». Ma anche il mais manda segnali poco confortanti: gli stocks globali sono al livello più basso da 37 anni a questa parte, con una ratio-to-use del 13%: un livello molto basso, quasi limite, tanto più che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare il 36% del corn crop per etanolo a finalità di carburante. Si guida ma con lo stomaco mezzo vuoto.

 

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Il prezzo del mais è salito del 40% da giugno, raggiungendo i 5 dollari per bushel: qualcuno gettava la croce sul cattivo tempo che ha danneggiato i raccolti negli Usa, ma poi si è scoperto la Cina ha importato la cifra record di 432mila tonnellate solo ad agosto. Il problema, in questo caso, è strutturale: la Cina si sta infatti trasformando in importatore di mais strutturale a causa di un cambio di abitudini alimentari di massa. Si mangia più carne e quindi servono più granaglie per allevare e nutrire gli animali: il 70% del mais cinese è usato a tale scopo e servono circa sette chili di mais per “produrre” un chilo di carne di manzo.

 

Si chiama agflazione, l’inflazione agricola e unita al prezzo record dell’oro ci segnala l’inflazione a livello globale, figlia delle politiche monetarie di Usa, Ue e Giappone che stanno inondando di liquidità il mondo. Il problema è che la mancanza di cibo può essere un rilevatore sia inflazionistico che deflazionistico, basti pensare al fraintendimento compiuto nel 2008 quando si pensò all’inizio di una spirale inflazionistica stile 1970 e invece si trattava di ampliamento della domanda e speculazione correlata.

 

La Fed, questa settimana, lo ha detto a chiare lettere: esiste un downside risk di inflazione. Il mondo cambia e la trasformazione di due giganti come Russia e Cina in importatori strutturali potrebbe creare uno shock di notevoli dimensioni, soprattutto in questo contesto di debolezza globale persistente. Siamo a uno snodo fondamentale degli equilibri geopolitici ed economici e Pechino lo sa, visto che il premier Wen Jiabao, in visita a New York, ha risposto in questo modo alle pressioni Usa per un apprezzamento dello yuan: «Un aumento del 20% della nostra moneta potrebbe causare severe perdite di posti di lavoro e instabilità sociale, gettando la nazione di fronte alla prospettiva di scontro legale con gli Usa sulle pretese monetarie. Non possiamo infatti nemmeno immaginare quante aziende cinesi andrebbero in bancarotta, quanti lavoratori cinesi perderebbero il loro posto e quanti lavoratori immigrati lascerebbero le città per tornare nelle campagne: se accettassimo la pretesa Usa di apprezzamento tra il 20% e il 40% lo scenario sociale sarebbe devastante».

 

E si sa che Pechino alle guerre civili preferisce quelle di nervi. A oggi lo yuan si è apprezzato circa del 2% sul dollaro dal 19 giugno, giorno in cui la Banca centrale cinese ha dato il via libera a un cambio più flessibile rispetto al peg semifisso a 6,83 contro il biglietto verde durato per due anni. «Richiedere un apprezzamento di quel livello è sintomo di una totale assenza di fondamenti nel mercato dei cambi, non è possibile e gestibile uno shock simile in un tempo così breve», ha dichiarato Glenn Maguire, economista di Societe Generale a Hong Kong.

 

Rispondendo alle accuse Usa, Wen ha detto chiaramente che «la causa principale del deficit commerciale Usa non è il tasso di cambio con la moneta cinese, ma la struttura degli investimenti e dei risparmi. La Cina non promuove un surplus commerciale intenzionalmente». Vero o no, la Cina vantava un surplus commerciale con gli Usa di 119 miliardi di dollari a metà di quest’anno, dato che potrebbe veder chiudere il 2010 con un dato ancora maggiore dei 227 miliardi del 2009: un guaio per Obama, costretto ad affrontare un tasso di disoccupazione del 9% e le elezioni di mid-term a novembre.

 

Per capire il livello del dibattito, sappiate che Wen ha parlato a un incontro organizzato da Goldman Sachs a cui hanno partecipato l’amministratore delegato di Pepsi Inc. Indra Nooyi, gli ex segretari al Tesoro, Henry Paulson e Robert Rubin e vedeva come moderatore nientemeno che Henry Kissinger, l’uomo che riannodò i fili del dialogo con Pechino durante l’amministrazione Nixon.

 

«Le differenze tra noi è gli Usa sono molto facili da risolvere se comparate con le sfide affrontate in quei giorni dal dottor Kissinger», ha chiosato sornione Wen. Come dire, veniteci incontro oppure sarà guerra: monetaria, ma anche a livello di gestione del vostro debito. Insomma, war games. Globali.