Ma perché ci si ostina a negare l’evidenza, ovvero che la Grecia è fallita? Martedì anche Ben Bernanke ha fatto sentire la sua voce preoccupata per la crisi del debito europeo, eppure guardando in faccia la realtà il debito greco è di soli 330 miliardi di euro, una goccia nel mare di triliardi della finanza globale? Bertold Brecht diceva che anche un granello di sabbia può inceppare – almeno per un po’, facendo più danni possibile – il meccanismo più potente e sofisticato e la Grecia è proprio quel granello.

Ancora ieri, il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, è tornato a ribadire che «la crisi del debito europeo rappresenta un rischio significativo per l’economia globale», pur assicurando che «l’esposizione degli istituti finanziari Usa alla crisi europea è di dimensioni piuttosto piccole». Per questo anche l’America è preoccupata, anche per le bugie di Geithner. Non certo per le esportazioni, per capire la radice della questione bisogna seguire il denaro: un default greco – o di un altro dei paesi periferici in bilico – si sostanzierebbe in un’altra Lehman Brothers per il sistema finanziario, il caos. E gli investitori cominciano a sentire l’odore della crisi: lunedì scorso l’azionario è sceso ai minimi da 13 mesi a Wall Street, proprio a causa della sell-off sui titoli bancari Usa. Quello di Morgan Stanley ha perso il 48,5% da inizio anno, quello di Goldman Sachs il 44%, mentre Bank of America addirittura il 57%. Eppure Wall Street, intesa come istituzioni finanziarie, ha prestato solo 7 miliardi di dollari alla Grecia, stando ai dati resi noti alla fine dello scorso anno dalla Banca per i regolamenti internazionali: nulla di straordinario, quindi.

Il fatto è che un default greco avrebbe conseguenze pesanti sulle banche francesi e tedesche (come stiamo vedendo in queste ore con Dexia e Deutsche Bank, per non parlare di Commerzbank che tra poco dovrà dire la verità), le quali hanno prestato molto di più ad Atene e Wall Street ha elargito parecchio denaro agli istituti dell’Eurozona: esattamente 2,7 triliardi di dollari, la metà dei quali proprio a banche di Germania e Francia. Ma non basta. Wall Street si è anche assicurata o ha scommesso su ogni tipo di derivato di emanazione europea – energia, valuta, tassi d’interesse, swap valutari esteri -: se una banca francese o tedesca va a zampe all’aria, gli effetti correlati sarebbero quindi incalcolabili. Ecco perché le azioni delle più grandi banche Usa sono scese per tutto lo scorso mese.

Lunedì scorso Morgan Stanley ha chiuso ai minimi dal dicembre 2008, mentre il costo per assicurarsi sulla stessa banca è salito ai massimi del novembre 2008: la ragione sta tutta nei rumors che vedrebbero Morgan Stanley a rischio di una perdita da 30 miliardi di dollari se una o più banche francesi o tedesche dovessero cadere, stando a dati del Federal Financial Institutions Examinations Council, che traccia tutte le esposizione cross-border dei principali istituti. Quella cifra è circa 2 miliardi più del valore degli assets che Morgan Stanley detiene, in termini di attuale capitalizzazione di mercato. Peccato che Morgan Stanley si ostini a dire che la sua esposizioni alla Francia è zero, dando vita a una discrepanza poco credibile. Chi mente, quindi?

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Probabilmente Morgan parla questa lingua perché si è assicurata contro i suoi prestiti verso banche europee, ma il precedente di Aig fa suonare più di una campana Oltreoceano: quando Wall Street cominciò a cadere sotto i colpi della crisi, il gigante andò a zampe all’aria e con esso le assicurazioni delle scommesse fatte dalle banche con Aig, la quale non poté pagare. Questa crisi non è legata al debito, è legata alla sfiducia e alla poca trasparenza. Per quanto infatti sia Wall Street che gli hardliners Repubblicani si lancino contro la nuova regolamentazione Dodd-Frank definendola troppo invasiva, infatti, nessuno conosce la reale esposizione di Morgan Stanley a banche europei o derivati e lo stesso vale per le altre big di Wall Street: questo dimostra che la Dodd-Frank non ha ancora fatto abbastanza.

Negli Usa, i regolatori non sanno cosa sta succedendo nel cuore finanziario del Paese, esattamente come nel 2008. Sa qualcosa di più l’Office of the Currency Compotroller, il quale nel suo ultimo rapporto trimestrale fa notare che le quattro principali banche Usa contano nel sistema finanziario per un ammontare di rischio da derivati massicciamente sproporzionato. Nello specifico, dei 250 triliardi di dollari in valore nominale lordo in contratti derivati (comprese Interest Rate, FX, Contratti Equity, Commodity e CDS) delle 25 maggiori banche commerciali, quattro banche da sole contano per il 95,9% di tutte le esposizioni sui derivati. E tra queste quattro non figura la giubilata Morgan Stanley! JPMorgan Chase detiene78 triliardi di esposizione in derivati, Citi Bank 56 triliardi, Bank of America 53 triliardi e Goldman Sachs 48 triliardi. Per questo a Washigton continuano a premere sull’Europa affinché salvi la Grecia, addirittura spedendo – con un atto di arroganza senza precedenti – il segretario al Tesoro, Tim Geithner, al vertice Ecofin in Polonia tre settimana fa a dettare la linea, ovviamente basata sulla leva.

Solo pochi mesi fa, la situazione era diametralmente opposta: le banche di Wall Street dicevano di stare tranquilli poiché la loro esposizione era minima, la Fed diceva lo stesso, con Ben Bernanke che ancora lo scorso luglio rassicurò il Congresso rispetto alle dimensioni più che gestibili delle posizioni sull’Eurozona degli istituti Usa. Ora il tono è, generalmente, molto diverso.

Insomma, il vero problema non è la Grecia, né l’Irlanda o il Portogallo o la Spagna e o la neo-declassata Italia: il vero nodo è il sistema finanziario globale, centrato su Wall Street. Permettere il default greco, per Washington significa dover salvare un’altra volta la Street, come tre anni fa, ovvero dar vita a un terzo ciclo di quantitative easing, questa volta full-force, potenzialmente in grado di disintegrare il dollaro (a forza di stampare in cantina, schizzerebbe a 1,60 sull’euro), il cui mantenimento nello status di valuta globale (ovvero prezzatrice delle commodities e denominatrice di scambi e contratti) è l’unica e vera preoccupazione degli Usa.

Ma vale davvero la pena massacrare un Paese e un popolo come quello greco (che ovviamente deve smetterla di vivere sopra le proprie possibilità e deve dire addio al pubblico come panacea di tutti i mali) e tramutare l’Eurozona in un coacervo commissariato di austerity in mano alla tecnocrazia, solo per evitare che le banche Usa non paghino le scommesse azzardate che hanno fatto? Io dico di no. “Put Europe first”, sempre.

 

P.S. Martedì scorso, il ministro delle Finanze greco (ex ministro delle Difesa) ha reso noto che le casse statali hanno denaro sufficiente fino a metà novembre e non metà ottobre, come in un primo tempo affermato. Misteri dei bilanci! E deve esserci un mistero bello grosso ad Atene se il quotidiano svedese Svd Naringsliv afferma che la Grecia avrebbe ordinato 400 carri armati agli Stati Uniti. Stando al sito Defencegreece, che a sua volta cita la rivista Hellenic Defence&Technology, il governo statunitense avrebbe dato luce verde alle richiesta ellenica di 400 tanks del modello M1A1 Abrams, una commessa da decine di milioni di dollari di esborso.

Stando alla stampa, l’ordine contemplerebbe anche 20 mezzi anfibi AAV7A1, per i quali il governo greco avrebbe inoltrato una «lettera con richiesta di prezzo e disponibilità», comprendente anche un programma di upgrade a basso costo. Insomma, un bello stimolo economico. Per gli Usa… Ma conoscendo i trascorsi politici recenti della Grecia, la montante protesta sociale e la rinnovata tensione con la Turchia per Cipro, alla mente balzano anche pensieri più inquietanti.