Oggi ho deciso di dimenticare per un giorno la stretta attualità. Non vi parlerò di spread, banche, debito, aste, cambi valutari, fondi salva-Stati, del primo calo da 28 mesi a questa parte degli investimenti esteri diretti in Cina (signore e signori, la bolla del credito è scoppiata) e quant’altro la cronaca di questi mesi ormai ci ha reso pane quotidiano. Oggi vorrei tentare di dare uno sguardo d’insieme e cercare di capire con voi cosa siano diventati il capitalismo e il libero mercato, trovando nella degenerazione di quest’ultimo una ragione ontologica e radicale della crisi che stiamo vivendo, al di là dell’azzardo morale e del profitto a ogni costo che hanno trasformato la finanza in un misto tra i casinò di Las Vegas e il laboratorio del dottor Frankenstein.

Per farlo, prendiamo ad esempio il tempio del capitalismo, Wall Street e un paio di riflessione apparse sulla stampa statunitense la scorsa settimana, debitamente nascoste tra news meno sgradevoli. Per cosa si eccita, infatti, la piazza finanziaria newyorchese, a parte che per i dollari della Fed che da tempo la tengono artificialmente in vita? Se avete notato leggendo i giornali, gli unici titoli di neo-collocamento (Ipo) che hanno creato sensazione – e profitti – sono stati quelli di società di marketing e social network, con tre quarti della comunità finanziaria che già eccede in salivazione come il cane di Pavlov di fronte al collocamento di Facebook previsto per il prossimo anno (fissato non per scelta, ma perché la Sec ha detto chiaramente al signor Zuckerberg che non poteva più truccare i conti degli azionisti per restare sotto la quota che fa scattare automaticamente l’Ipo, pena una multa da piangere).

Insomma, si scommette e ci si scanna per aziende che non producono NIENTE: né oggetti, né ricerca, né tantomeno posti di lavoro o crescita. E che sono soltanto frutto della bolla creata da banche d’affari come Goldman Sachs che, curandone il pre-collocamento, avanzano stime di capitalizzazione folli che, per Facebook, ad esempio, sono giunte a oltre 50 miliardi di dollari! Ma vi rendete conto? Un sito dove potete leggere se un vostro amico sta bevendo il caffé o è arrabbiato per la sconfitta della sua squadra del cuore o vedere le foto di una festa di compleanno, avrebbe un valore di oltre 50 miliardi di dollari! Tutto il mondo è impazzito. Tanto più che, al netto dell’ubriacatura iniziale, il mercato quando vuole il suo lavoro sa ancora farlo e dopo collocamenti record ha già sgonfiato e di molto sia LinkedIn che Pandora, spedendo le Ipo giù dell’11% quest’anno. Il caso di LinkedIn è molto interessante da questo punto di vista. Collocato in Borsa lo scorso 18 maggio, il titolo schizzò da 45 dollari per azione di valutazione pre-Ipo a 86 dollari per azione, un aumento di oltre l’80% con punta di massimo a 92,99 dollari: dati che hanno portato la valutazione dell’azienda a 4,3 miliardi di dollari. Ieri, a sette mesi dal collocamento, era trattata a 49 dollari, quattro dollari più del suo valore pre-Ipo.

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Eppure un sacco di gente ha fatto soldi a palate con LinkedIn. Come certificava il Wall Street Journal del 19 maggio scorso, a fregarsi le mani sono stati ovviamente il fondatore del sito, Reid Hoffman, detentore del 21,7% del pacchetto azionario con diritto di voto e ritrovatosi in tasca, grazie al collocamento boom, qualcosa come 1,6 miliardi di dollari. E poi Sequoia Capital, Greylock e Bessemer, tre fondi di private equity, azionisti della prima ora, ringraziati con una quota totale del valore di 3,1 miliardi di dollari. E che dire della McGraw-Hill, l’azienda proprietaria di Standard&Poor’s (secondo voi, che rating hanno dato a LinkedIn?), che investì 5 milioni di dollari quando LinkedIn era valutata circa 1 miliardo e subito dopo il collocamento ha venduto le sue azioni per quasi 20 milioni di dollari, più di quanto incassato dalla vendita nel 2009 del settimanale BusinessWeek.

Chi non ha brindato più di tanto, per una volta, è stata Goldman Sachs, la quale in tre anni ha sì quadruplicato il valore delle azioni in suo possesso, ma una volta giunti all’Ipo ha venduto tutti i suoi 881.840 titoli, garantendosi 39 milioni di dollari dal collocamento. Troppa fretta di vendere, però: le avesse tenute ancora un giorno, prima di vendere, avrebbe incassato 76 milioni di dollari. A quanto pare, tutta gente intenzionata a restare a lungo nel business, gente che crede nel progetto di medio-lungo periodo, nella sua sostenibilità e utilità industriale, che ne dite? Ma per forza, io compro azioni di chi fa macchine, frigoriferi, frullatori, gestisce telefonia, non di chi mi permette di rimettermi in contatto con qualcuno che, se non sento da venti anni, forse non mi è poi così caro (e, comunque, non genera profitti ma offre solo i miei dati sensibili in mano ad agenzie di vario titolo, non ultima la Fed per sua stessa ammissione). Come si fa a puntare su aziende che non producono nulla e, oltretutto, sono libere e gratuite (Facebook, Twitter) oppure basate su un meccanismo di marketing libero come Groupon? Voi vi ricordate di un collocamento Usa che abbia portato recentemente in Borsa un’azienda che producesse un bene o che non avesse a che fare con il marketing?

Il problema è questo: Wall Street, intesa come America e di riflesso Europa, sembra non avere più nulla da vendere se non marketing per clientele sempre più ampie, ma anche sempre più povere, vista la crisi e l’incapacità di uscirne (certo la soluzione non ce la darà Facebook). E visto che la finanziarizzazione selvaggia e la leva stanno cominciando a perdere i colpi, ecco che solo Wall Street permette alle banche d’affari collocatrici di trovare uno spazio per profitti da record a fronte della sottoscrizione prima e della quotazione poi di fuffa allo stato puro. Ma voi pensate davvero che i coupon di Groupon funzionino e siano destinati a durare, ovvero a creare un sistema alternativo di acquisto? Offrire il 50% di sconto significa solo applicare a livello annuale – 365 su 365 – la logica del Black Friday, ovvero far crescere le vendite poiché prodotto o servizio sono offerti in perdita. Ottenuto l’affarone, il cliente deve però aspettare che arrivi il prossimo player disposto a vendere in perdita, mentre l’azienda sconta un aumento degli introiti che declina rapidamente una volta incorsa in perdite maggiori per onorare il coupon: capite che può durare un anno, poi si tramuta giocoforza in uno schema Ponzi.

Siamo di fronte a un gioco darwiniano a somma zero, visto che si aumenta il marketing a fronte di una platea virtuale sì sempre crescente, ma anche sempre più povera: se il credito al consumo e gli stipendi scendono, come possono aumentare le vendite? Infatti, non crescono, sono solo state portate avanti nel tempo o frutto delle lotte disperate di competitori alla canna del gas che, comunque, falliranno a breve. Nessuno regala niente, nessuno ti vende a 10 ciò che costa 100 solo perché sei su Groupon, sveglia! Lo fa una volta, ma non si crea ciclicità, crescita e consumi così! E Wall Street sta vendendo questo, ovvero la promessa, sotto forma di azioni di questa o quella società di marketing o social network, di poter raggiungere la platea globale della disperazione consumistica prima di altri sciacalli tuoi competitori.

I soldi veri, al limite, non si fanno offrendo servizi gratis, ma vendendo i prodotti contenuti nei siti a gente che sta ore e ore a rimbecillirsi su Facebook o Twitter. Ma anche qui, la scommessa di Wall Street è folle: a fronte di quasi 800 milioni di persone che stanno su Facebook, quante sono disposte a spendere? Quante hanno i mezzi per spendere? E se anche tutti comprassero qualcosa attraverso quei servizi, non sarebbe il mercato a diventare più ricco, ma soltanto chi detiene o gestisce quei servizi di marketing: al mio panettiere non frega niente e nemmeno alla lavanderia all’angolo o all’Esselunga dietro casa. Wall Street questo lo sa e allora torna in versione 2.0 e pre-collocamento alla vecchia pratica del “pump and dump”, gonfia e scarica. Solo che qui non si pompa artificialmente il valore di un’azione già trattata, si pompa la valutazione pre-Ipo per piazzare titoli a tutto andare e poi chissenefrega se in tre mesi perdono il 60%, loro mica li tengono in portafoglio (Goldman Sachs che farà miliardi dal collocamento di Facebook, ha titoli per 450 milioni ed è pronta a venderle ai massimi, magari con più cautela rispetto a LinkedIn ma non certo molta).

Inoltre, per chi vende quei servizi finanziari, la vita è davvero bella: non deve produrre beni o offrire servizi reali, deve solo attendere che qualche milione di gonzi si renda conto di non poter più vivere senza Facebook e qualche centinaio di analisti e giornalisti prezzolati inquinino le menti dei consumatori-utenti con la storiella che i social media sono il futuro, mentre tu inserzionista sui media tradizionali non vedrai nemmeno la fotografia della carta di credito di un cliente-navigatore. Uniamoci poi la panzana politically correct delle rivoluzioni arabe e di Occupy Wall Street figlie dirette dei social network (mai visto un dittatore che crolla per Internet, la Cina è lì a dimostrarlo) e l’abbaglio a nove zeri per chi colloca è servito. Wall Street non vende il potenziale industriale-sociale-economico di quelle aziende, vende il fatto che certamente ci saranno milioni di gonzi pronti a comprarti a peso d’oro le azioni del collocamento.

Volete capire a che livello di follia siamo arrivati? Bene, due giorni fa un analista della Sterne Agee ha piazzato un rating “sell”, vendere, al titolo di Zynga, il produttore di Farmville, prima che questo fosse stato collocato in Borsa, cosa accaduta ieri sera! Il perché, stando all’analista Arvind Bhatia, sta tutto nel calo degli introiti e nella troppa dipendenza da Facebook. Sapete a quanto era previsto il collocamento delle azioni? Un range tra 8,50 e 10 dollari per azioni su un totale di 100 milioni di titoli emessi, un valore di mercato di circa 7 miliardi di dollari se prezzato al margine più alto del collocamento. E chi sottoscrive le azioni Zynga? Il gotha: Morgan Stanley, Goldman Sachs, Bank of America, Barclays, JP Morgan e Allen&Co. Pensate che lo facciano perché ci credono, per lungo periodo, perché convinti dal piano industriale che non c’è, dalla ricerca che non sviluppano se non per rendere la coltivazione virtuale del mais più interessante, dai posti di lavoro che non creano direttamente o come indotto? No, agganciali e spennali, questo è tornato a essere il motto. Non essendo Sterne Agee un sottoscrittore, ha potuto pubblicare il suo report a ridosso del collocamento, visto che una legislazione anti-bolla statunitense vieta alle società sottoscrittrici di rendere noti report nei quindici giorni precedenti all’Ipo: non vieta però di gonfiare le capitalizzazione, nonostante la Sec abbia aperto un’indagine sull’intreccio Goldman-Facebook lo scorso gennaio (risultati, zero).

Scommettete che tra cinque settimane, non cinque mesi come LinkedIn, il titolo di Zynga sarà al di sotto del valore di collocamento? E scommette che nessuna delle entità sottoscrittrici avrà più in portafoglio un solo titolo? Signori miei, o si riparte dall’uomo e dal lavoro o nessuna alchimia finanziaria e di marketing ci porterà fuori dalle secche di questa crisi, umana e di metodo prima ancora che economica.

 

Aggiornamento: “Partiti a Wall Street gli scambi di Zynga, il produttore di videogiochi online che debutta sul Nasdaq dopo l’Ipo da un miliardo di dollari, la maggiore da quella di Google nel 2004 (all’epoca il colosso di Mountain View raccolse 1,7 miliardi di dollari). Il titolo, quotato con un prezzo di collocamento di 10 dollari per azione, nelle prime battute di scambi è arrivato a guadagnare il 12,5%, ma ha subito rallentato il passo fermandosi appena sopra il collocamento con un guadagno dello 0,20% e scivolando quindi in negativo. Al momento, pochi minuti dopo l’inizio degli scambi (in ritardo di oltre un’ora e mezza rispetto agli altri titoli di Wall Street) è in ribasso del 4,8% a 9,53 dollari per azione”. (Radiocor, 16 dicembre 2011, ore 17:22). Avevo dato al titolo di Zynga cinque settimane per ritracciare sotto il prezzo di collocamento, sono bastati nemmeno venti minuti. Forse la gente ha capito che volevano vedergli solo fuffa. Quando Goldman Sachs vuole venderti qualcosa, vige una sola regola: non comprarlo.