Lancio un appello dalle colonne digitali de ilsussidiario.net: candidiamo Enrico Letta al premio Nobel per l’economia. Ne ero già abbastanza convinto, ma dopo aver assistito alla sua performance a Porta a porta mercoledì sera, ne sono convinto fino in fondo. Ma quale Krugman, ma quale Friedman: Enrico Letta è il futuro dell’economia mondiale, un vero genio di fronte al quale Keynes e Von Hayek, per una volta d’accordo, si inchinano. Cosa ha avuto il coraggio di dire, infatti, il vice di Bersani nel salotto di Bruno Vespa, rispondendo a chi giustamente, da settimane, gli chiedeva conto della sua previsione da Mago Otelma rispetto al crollo di 100 punti dello spread con le sole dimissioni di Silvio Berlusconi? Dopo che Roberto Maroni aveva mostrato la prima pagina de Il Sole 24 Ore del 10 novembre, quella per capirci del titolo “Fate presto”, il buon Enrico Letta, serafico e impermeabile alla vergogna, ha sentenziato: «A quanto era lo spread il 10 novembre? 575, beh oggi è a 474, quindi 100 punti meno». Qualcuno, per carità, dica a Letta che mercoledì mattina lo spread veleggiava a quota 512, poi il buon Draghi ha dato il via all’ennesimo Btp-Day della Bce e allora via sotto quota 500. Poi si risale, salvo scendere a cannone quando la Fed decide di usare il bazooka e dare ancora una settimana di vita all’eurozona abbassando di 50 punti base i tassi sulle linee di swap del dollaro, ovvero facendo pagare meno alle agonizzanti banche europee il loro finanziamento attraverso la Bce in dollari. Letta, le dico un segreto ma se lo tenga per lei (al limite scriva un bigliettino a Monti): se al prossimo vertice dell’8 e 9 dicembre i tedeschi accettano di trasformare la Bce in prestatore di ultima istanza, il nostro spread va diritto sparato ben sotto i 300 punti base, forse anche 250.



Ironia a parte, cosa ha fatto la Fed mercoledì? In soldoni, ha accettato di fornire dollari a un tasso più basso alla Bce, la quale a sua volta li metterà a disposizione attraverso prestiti alle ormai illiquide banche dell’eurozona, le quali si ritrovano pressoché impossibilitate nel roll over su 2 triliardi di debiti denominati in dollari, tanto più che stando a dati di Fitch, i money markets statunitensi hanno tagliato del 69% il finanziamento alle banche francesi e del 50% quello agli istituti tedeschi. Non fatevi abbindolare dalla presenza nell’azione coordinata delle banche centrali di Giappone, Canada, Gran Bretagna e Svizzera: non saranno loro a beneficiare di questa politica, dovevano solo alzare il ditino per far vedere ai mercati che gli istituti centrali lavorano insieme. L’unica finalità è cercare di ammorbidire un po’ il credit crunch già in atto in Europa, visto che molte banche europee denominano in dollari i loro prestiti, in parte perché i tassi d’interesse negli Usa sono più bassi.



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E come finanziano questi prestiti le banche? Non certo prestando il denaro depositato dai correntisti (non ancora, almeno), bensì attraverso finanziamenti a breve termine da parte di altre istituzioni finanziarie. Quando le banche europee eseguono un prestito in dollari o acquistano un asset denominato in dollari, normalmente prendono a prestito quei biglietti verdi attraverso ciò che è definito “international wholesale deposit market”, altrimenti una via alternativa è prestare denaro nella valuta d’origine (euro, ad esempio) e poi usare gli swap su valuta estera per proteggersi dal rischio. Perché questo intervento? Perché la crisi del debito ha reso molto più difficile, se non impossibile, per le banche europee prendere in prestito dollari sul wholesale market e quindi, per poter erogare prestiti in dollari, devono chiedere aiuto alla Bce. Inoltre, l’aumento dei costi degli swap in valuta straniera ha reso molto più costoso fare prestiti in dollari basati su assets denominati in euro. Normalmente, le banche centrali erogano prestiti solo denominati nella loro valuta domestica, ma in tempi di stress internazionale – come ad esempio il 2008 -, gli istituti di tutto il mondo creano linee di swap che permettano di prestarsi denaro l’uno con l’altro, permettendogli di erogare prestiti in altre valute. Quindi, per farla breve, le banche europee stavano incontrando difficoltà insormontabili nel fare prestiti in dollari a causa del costo eccessivo, una fattispecie che indeboliva la loro capacità di prestatore di biglietto verde e le incoraggiava a vendere euro. Questo non solo deprimeva il valore della moneta unica europea, ma, soprattutto, restringeva il credito nell’eurozona: ecco che la Bce ha trovato il modo di convincere la Fed a prestarle dollari a un tasso più conveniente, al fine di dare un po’ di ossigeno al mercato.



Insomma, gli americani si svenano per salvarci? Calma. In primo luogo, le banche europee sono tra i maggiori prestatori del mercato corporate statunitense: quando i nostri istituti non possono partecipare al mercato dei prestiti in dollari verso le aziende Usa anche il credito americano si contrae. Inoltre, quelli decisi non sono prestiti alle banche dell’eurozona, ma alla Bce, soggetto che formalmente – essendo una banca centrale – non può fare default, quindi sicurissima. Terzo, i dollari che la Fed sta mettendo a disposizione non sono i greenback dei contribuenti statunitensi, ma dollari nuovi di zecca a un bassissimo tasso di interesse. C’è, quindi, solo un piccolo rischio inflattivo, ma in questo ambiente economico, davvero risibile, visti i rischi reali che corre l’eurozona. La quale, si sa, è un mercato troppo importante per l’export Usa per crollare senza fare morti e feriti anche Oltreoceano. Ecco perché la Fed ha deciso di darci ancora una settimana di vita (lo stimolo simile approntato il 17 settembre scorso vide i suoi effetti cominciare a svanire già il 23), perché questo lasso di tempo è quello che accompagnerà le istituzioni europee al vertice dell’8 e 9 dicembre, meeting che se dovesse fallire (ovvero non riuscire a convincere la Germania della necessità di cambiare statuto e mission della Bce) scriverebbe la parola fine sulla filigrana della moneta unica europea.

Non è un caso che ieri mattina Mario Draghi abbia sottolineato più e più volte la necessità non solo del fatto che la liquidità presente nel sistema circoli (le banche, invece, prendono e poi parcheggiano presso la Bce. Basterebbe però che questa mettesse tassi pesantemente negativi sull’overnight e vedi che la liquidità circolerebbe), ma che si prenda in considerazione la realtà in base alla quale si dovrà giungere a una modifica dei Trattati. Chissà se Angela Merkel si rende conto che il suo atteggiamento ormai indifendibile sotto ogni punto di vista, potrebbe regalarci il fallimento dell’euro per Natale? Mah, una cosa è certa: i grandi player hanno la quasi certezza che il sistema, così com’è, non abbia possibilità di sopravvivenza. Non si spiegherebbe, altrimenti, l’aumento di 107 trilioni di dollari da gennaio a giugno di quest’anno dell’ammontare di derivati pendenti over-the-counter (ovvero, non regolamentati) certificato dalla Banca per i regolamenti internazionali nel suo ultimo report.

Già, siamo passati da quota 601 trilioni agli attuali (anzi, di giugno) 708 trilioni di dollari: avete capito bene, 707.568.901.000.000. Tanto per capirci, il Pil mondiale è attorno ai 63 trilioni di dollari. Insomma, nei primi sei mesi di quest’anno le banche mondiali hanno venduto derivati, soprattutto sui tassi d’interesse e cds, come se non ci fosse un domani, facendo gonfiare la bolla del credito sintetico a dismisura e quasi scommettendo sul fatto che nessun credit default swaps attiverà le clausole di pagamento, perché il sistema, nel suo insieme malato, collasserà prima. Tic toc, mancano pochi giorni al possibile “Eurogeddon”. Se qualcuno vede la Merkel, per caso, glielo faccia notare.

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