I vertici di Facebook e Google hanno avuto colloqui preliminari con Twitter negli ultimi mesi per studiare prospettive di acquisizione della società, stando a quanto riportato dal Wall Street Journal. «I colloqui per il momento non sono approdati a nulla», scrive il quotidiano finanziario citando fonti vicine al dossier, secondo cui il confronto con i potenziali acquirenti avrebbe però portato a una valutazione della società stimata tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari.
A dicembre, quando Twitter ha ricevuto 200 milioni in una nuova venture capital, era valutata 3,7 miliardi di dollari e ieri – scrive il Wsj – il fondo americano Andreessen Horowitz, ha investito 80 milioni di dollari. I vertici di Twitter, sono però determinati «a costruire una grande società indipendente che – dicono le fonti – potrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari». Sempre stando alle indiscrezioni, Twitter ha realizzato nel 2010 ricavi per 45 milioni di dollari in un anno in cui ha dovuto sostenere costi per investimenti nei data center e assunzioni e per quest’anno si stimano ricavi tra i 100 e i 110 milioni di dollari.
Insomma, grandi cifre basate sul nulla, almeno parlando da un punto di vista industriale. Esattamente come i 50 miliardi di dollari di valutazione per Facebook, con Goldman Sachs attivissima non solo nell’acquisto di 450 milioni di dollari di azioni, ma anche nel pricing stesso dell’azienda: Goldman sta già collocando titoli, nonostante Facebook non sia ancora quotata in Borsa, ma solo per investitori esterni agli Usa, visto che la pubblicità di cui sta godendo il social network infrange le regole del mercato statunitense. E già questo dovrebbe far pensare a cosa sta dietro il nuovo business tech, versione “sociale” della bolla dot.com che lasciò buona parte di Wall Street in braghe di tela.
Ma c’è di più. Molto di più. Per ora, infatti, si tratta soltanto di una richiesta di informazioni – anche se a New York, nei corridoi che contano, si parla chiaramente di un’inchiesta formale già avviata anche se non senza ostacoli – ma presto potremmo assistere a sviluppi degni della crisi subprime: la nuova “sensazione” del mercato Usa e non solo sono infatti i social network (da ieri anche con Il Sole 24 Ore è possibile acquistare il primo volume della collana “Fare business con i social network”, dedicata proprio a Facebook) e il rischio bolla appare altissimo prima ancora che si sostanzi la loro stessa quotazione in Borsa.
Il livello di crescita esponenziale del trading delle azioni di aziende come Facebook, Twitter, LinkedIn e Zynga ha infatti suscitato l’interesse della Sec, l’ente di vigilanza della mercato Usa e, nei fatti, accelerato i tempi per la quotazione delle società in base alle normative statunitensi. Aziende come SharesPost e SecondMarket, infatti, offrono piattaforme di trading private per questi titoli not public e la volontà di molti dipendenti delle aziende di monetizzare questa nuova gallina dalle uova d’oro garantisce un flow azionario pressoché infinito: pensate che la valutazione nel mercato secondario di Facebook ha raggiunto i 56 miliardi di dollari.
A oggi l’azienda della Silycon Valley nega un interesse al collocamento in Borsa prima del 2012 almeno, ma il fatto che il numero di azionisti stia salendo esponenzialmente mette in atto il meccanismo automatico del mercato Usa, in base al quale quando gli stokeholders salgono sopra quota 500, l’azienda è obbligata a rendere pubblici bilanci e dettagli finanziari. A oggi, molti azionisti privati comprano azioni nel mercato secondario in gruppi, ma se la Sec decidesse di contare come azionisti singoli ogni partecipante a queste joint ventures, quel numero sarebbe già stato superato. Ecco cosa si vuole accertare. Non a caso Facebook, spaventata dall’ipotesi di dover spalancare i propri libri, ha posto il veto alla vendita di azioni da parte dei propri dipendenti sul mercato secondario e inoltrato una nuova regola in base alla quale le azioni offerte ai nuovi dipendenti avranno valore solo se l’azienda sarà venduta o quotata in Borsa.
Insomma, c’è timore verso la trasparenza: come mai? Di certo c’è che aziende come Facebook e Twitter hanno visto il loro valore crescere del 54% da giugno a oggi, stando ai dati della Nyppex LLC sulle transazioni sul mercato secondario. Per Dixon Doll, co-fondatore dell’azienda di venture capital DCM, «è assolutamente normale e giusto che i regolatori vogliano delle risposte, soprattutto in condizioni come queste che vedono una crescita enorme di investitori privati». Anche perché broker come SharesPost e SecondMarket aiutano proprietari di azioni a incontrare on line potenziali acquirenti e negoziare il prezzo dei titoli in transazioni private: il problema è che c’è la quasi certezza che i protagonisti più attivi della categoria dei compratori siano null’altro che investitori istituzionali estremamente sofisticati, quindi anche se quelle aziende non sono quotate nel senso istituzionale di essere trattate quotidianamente e in maniera regolamentata, c’è la certezza che la gente possa arricchirsi dal loro commercio, monetizzare liquidità.
E qui rientra in gioco la quota 499 azionisti, un risultato garantito a Facebook da aziende come Felix, EB e GreenCrest che hanno agito come “raggruppatori” di azionisti in pool al fine di mantenerne artificialmente basso il numero. Insomma, si comincia a giocare pesante, altro che siti che «sono gratuiti e sempre lo saranno», come recita il mantra nell’homepage di Facebook: qui non stiamo valutando il potenziale di siti che ti permettono di ricontattare il compagno di liceo o l’amore estivo dell’adolescenza (che, tra l’altro, se non si è fatto nulla per ricontattare in vent’anni, vuol dire che proprio tutto questo interesse non c’era, è solo moda ed emulazione), stiamo prezzando una messe di dati sensibili spaventosa, degna degli archivi della Cia. Gusti musicali, sportivi, culinari, artistici, sessuali, politici, religiosi: siamo autoschedati, visto che queste indicazioni le forniamo noi ogni volta che postiamo qualcosa o aggiorniamo il nostro profilo.
Una miniera d’oro per le aziende legate al marketing e alla pubblicità, un tesoro per le multinazionali: questo database volontario di chi si iscrive fornendo il proprio indirizzo e-mail crea il valore e giustificherebbe quei 50 miliardi. Ma nella comunità finanziaria sempre più esponenti ritengono quella cifra gonfiata: il 69% dei 1000 specialisti (investitori, trader e analisti) interpellati da Bloomberg, infatti, ritiene Facebook sopravvalutata e ha espresso serie preoccupazioni riguardo la creazione di una bolla nel settore tecnologico. Solo il 10% degli interpellati ha definito quella prezzatura appropriata e il 4% la ritiene addirittura sottovalutata.
L’effetto Goldman, insomma, per ora non ha fatto presa: anzi, ha fatto sorgere il dubbio riguardo una nuova stagione di “pump and dump” in arrivo con le quotazioni in Borsa di questi soggetti. Cosa sia il “pump and dump” è chiaro: gonfiare artificialmente il valore di un titolo per venderlo a peso d’oro a ignari investitori che pagheranno poi i costi della bolla. Semplice ed efficace, visto che gonfiare il valore di un’azione come quella di Facebook è un gioco da ragazzi: pubblicità, acquisti di blocchi di azioni e prezzature di parte che fanno crescere il profilo del titolo, rumors e boatos che circolano come polline nel vento, giornali pronti a dare una mano e il cotè vario rappresentato da elementi di suggestione collettiva come il film dedicato al fondatore di Facebook, “The social network” che ha corso per otto Academy Awards.
È tutta un’illusione, Gordon Gekko ci aveva avvertito già negli anni Ottanta. Ma più l’illusione diventa reale, più la gente la vuole. Insomma, a oggi Goldman Sachs vuole farci credere che Facebook valga più di giganti come Yahoo! o eBay, il primo portale web leader al mondo e il secondo gigante della vendita on line: una cosa è certa, nell’ottobre del 2010 Facebook ha sorpassato Yahoo! divenendo il terzo sito più visitato al mondo. «Chi sta investendo in Facebook, pensando che sarà la prossima Google, potrebbe avere brutte notizie, strada facendo», dichiara John J. Lee, manager di portafoglio alla PGB Trust&Investment e partecipante al sondaggio.
Già, anche perché da quando è stata quotata in Borsa nell’agosto del 2004, l’azione di Google ha triplicato di valore nel primo anno passando a 279,99 dollari da 85: il mese scorso il prezzo medio del titolo era 617,2 dollari. «In un comparto simile – prosegue Lee, che detiene azioni Google in portafoglio – l’effetto copycat è sempre all’orizzonte. Se anche il mercato all’inizio farà di Facebook un vincitore, basta l’arrivo sulla piazza di una compagnia più forte e veloce con un quid in più e il valore del titolo si diluirà».
Resta il fatto che il mese scorso Facebook ha rastrellato 1,5 miliardi grazie al round di collocazione operato da Goldman Sachs: oltre ai già citati 450 milioni investiti da Goldman, sono subentrati nel business la russa Digital Sky Technologies con 50 milioni e un gruppo di clienti di Goldman extra-Stati Uniti per qualcosa come 1 miliardo di dollari. Inoltre, Goldman detiene il diritto di vendere il 75% della sua quota proprio a Digital Sky: e lo farà, subito prima del botto.
Non a caso, Stephen Cohen, portavoce di Goldman Sachs a New York ha declinato ogni commento quando è stato interpellato da Bloomberg, mentre Facebook, attraverso una mail dell’ufficio stampa, ha definito l’operazione «parte della creazione di un servizio di utilità e di un business sul lungo termine». Parole di circostanza cui si contrappongono quelle emerse dal sondaggio di Bloomberg, in base al quale oltre il 50% degli interpellati ritiene la valutazione monstre di Facebook «l’inizio di una pericolosa nuova bolla», mentre solo il 17% la valuta come «fondazione di un boom destinato a restare». Non a caso, è il sentiment generale degli investitori verso le compagnie internet in generale a essere cambiato da due mesi a questa parte.
Per Luigi La Ferla, co-fondatore della LTP Trade di Londra, «più che di una bolla, si tratta di una manifestazione di eccesso razionale di cui sono capaci solo i mercati finanziari quando hanno a che fare con un qualcosa senza precedenti e, soprattutto, di inaspettato». Non è un caso, poi, che i pareri più negativi su Facebook e il suo valore giungano da investitori esterni agli Usa, per il 72% dei quali siamo di fronte a una palese sopravalutazione, parere condiviso dal 63% dei players statunitensi. «Ci sono troppo poche informazioni finanziarie per valutare un’azienda del genere e, inoltre, normalmente si tende a non voler comprare qualcosa che Goldman ha intenzione di vendere».
Saggezza del mercato. Stando alla valutazione attuale, Facebook supererebbe Tencent Holdings, l’azienda cinese che offre videogiochi on line e servizi di messaggistica immediata, valutata 42 miliardi di dollari alla Borsa di Hong Kong. Tencent viene trattata a valori 15 volte superiori i suoi ricavi, mentre la valutazione di Facebook, formalmente, viaggia a una media di 25 volte sulle revenues! Per fare un paragone, un gigante come Google ha una price-to-sale ratio di 9, stando agli analisti, mentre eBay ha un valore di mercato di 40,5 miliardi di dollari e Yahoo! di 21,1 miliardi.
Chi si professa ottimista a oltranza è invece Henry Littig, proprietario della Henry Littig Global Investments di Colonia, secondo cui «l’attuale trend rialzista delle aziende legate all’e-commerce è destinato a essere un boom durevole, con o senza Facebook». Una cosa è certa: a Palo Alto, in California, sanno che questo è il momento giusto per espandere al massimo il business in vista della quotazione. Non a caso Facebook sta aprendo un ufficio a Hong Kong per raggiungere gli inserzionisti del più grande mercato internet al mondo, visto che le aziende cinesi che intendono vendere all’estero i propri prodotti potrebbero potenzialmente acquistare spazi pubblicitari da Facebook.
A dicembre l’ad del social network, Mark Zuckerberg, ha visitato proprio la Cina, dove Facebook è stato vietato fino al 2009 e ha tenuto incontri con aziende internet locali come Baidu Inc. e Sina Corporation: in base alla legge cinese, i siti esteri come Facebook, Twitter, Google e YouTube sono vietati e richiedono website domestici che auto-censurino contenuti pornografici, di gioco d’azzardo o politici. Prossime tappe di colonizzazione, Brasile, Russia e India. Inoltre, proprio due giorni fa, Facebook e INQ Mobile Ltd. hanno svelato il prototipo di un telefono cellulare dedicato ai consumatori che intendono avere accesso ai servizi di social networking quando sono in volo, attraverso un’integrazione dei servizi di wall posting e foto offerti da Facebook e il software dei telefoni cellulari.
Pur non citando i nomi, Henri Moissainac, capo del dipartimento telefonia cellulare di Facebook, ha reso noto che la sua azienda stia trattando medesimi accordi di partnership con altri soggetti del comparto. Insomma, un valore di mercato di 50 miliardi di dollari – destinato a breve a salire ancora – per un’azienda che ti offre di poter leggere in aereo il post di un amico riguardo la sua serata al pub oppure che cerca di penetrare il mercato cinese, sapendo benissimo come la censura di quel paese sia un tail risk sul business di impatto enorme: siamo alla follia, all’illusione collettiva che Goldman Sachs sta tramutando in realtà. E che tutti vorranno disperatamente, esattamente come in Italia accadde per il collocamento di Tiscali: come sia finita la storia, lo sapete tutti.
Calcolate il valore potenziale di Facebook rispetto al giocattolino di Soru, che capitalizzava più di Fiat, e capirete da soli che la logica del “pump and dump” è l’unica che può spiegare l’interesse di Goldman Sachs nell’operazione, stante la continua evoluzione del settore e il potere diluitivo sul valore dell’arrivo di un competitor, magari “gonfiato” ad arte anch’esso. Il titolo Facebook, una volta quotato, sarà la classica azione da shortare per fare miliardi: la crescita economica, la produzione, sono altra cosa dai social network.
Se soltanto un giorno qualcuno decidesse di indire un giorno dello “slogo di massa” da Facebook per qualsiasi ragione, dai timori sulla privacy alla protesta per la finanziarizzazione stessa del social network, il valore del titolo crollerebbe: oltretutto, senza rischi di accusa di insider trading o turbativa dei mercati per nessuno. Neppure per chi, magari, quell’operazione l’ha posta in essere o facilitata, essendo posizionato short sul titolo. “Pump and dump”, appunto.