Il Nord Africa brucia. E l’Europa? Nonostante il focus di investitori e mercati sia ovviamente posizionato sull’Egitto – ieri quarto giorno di aumento del prezzo del petrolio e picchi record per cotone e rame, questi ultimi sensibili anche al tornado che sta colpendo l’Australia -, la crisi del debito nell’eurozona non è affatto terminata. Anzi. In compenso, mostra una mutazione del sentiment che potrebbe portare con sé sviluppi tutt’altro che piacevoli in caso di fallimento dei prossimi vertici Ue dedicati all’ampliamento del fondo salva-Stati.
Una settimana fa, infatti, i costi per il finanziamento del Portogallo erano sopra il 7%, un livello giustamente visto come insostenibile: il barometro volgeva al brutto, il rischio di un terzo bail-out dopo quelli di Grecia e Irlanda era imminente. Oggi non più. Cosa è successo? Forse Lisbona ha dato vita a un fulminante piano di riforme? Ha scoperto un tesoretto? No. Mercoledì il rendimento sulle obbligazioni portoghesi è sceso fino al livello del 6,76%, il più basso da tre settimane a questa parte e non per intervento della Bce: la Banca centrale, infatti, ha cessato ufficialmente l’acquisto di bond dell’eurozona.
A rendere possibile il rasserenarsi della situazione è stato un combinato di due fattori: primo, il buon risultato di un’asta di obbligazioni a breve termine e secondo, l’ottimismo dei mercati rispetto all’abilità dei leader europei di trovare una via d’uscita condivisa alla crisi del debito. Ora si entra davvero nelle settimane decisive: i costi di finanziamento, seppur scesi, restano comunque alti e se da qui al vertice del 4 marzo gli investitori dovessero intravedere battute d’arresto nelle discussioni tra i governi su volume e governance del fondo, Lisbona verrà letteralmente bombardata e costretta a correre ai ripari. La Bce, allo stato attuale, non rappresenta più un fattore, né di stabilità, né di instabilità: è tutto in mano alla politica, formalmente un bene ma fattivamente un possibile guaio.
Già il vertice di quest’oggi potrà dare delle indicazioni rispetto alla fattività di uno “scambio” tra aumento dell’importo gestito dal fondo e maggiori misure di austerity, oltre a un rafforzamento del controllo comunitario sui conti dei paesi traballanti. A oggi, i mercati depongono su un esito positivo della trattativa, ma sanno che occorrerà attendere marzo: una data cruciale, visto che in aprile e in giugno Lisbona dovrà rifinanziare qualcosa come 9,5 miliardi di debito. Capite da soli che in caso di accordo, quelle aste vedranno richiesta ai massimi e rendimenti in discesa, in caso contrario si rischia o il deserto di sottoscrittori o, peggio, yields che punteranno verso livelli greci.
Oggi le strade sono due: ottenere da Angela Merkel un ammorbidimento della sua posizione rispetto alla natura del fondo salva-Stati, oppure convincere – se non costringere – il Portogallo a negoziare un aiuto se l’impasse politica dovesse proseguire. A Lisbona sia la politica che l’imprenditoria dicono no a questa ipotesi, ritenendo il bail-out la soluzione peggiore visto che le ulteriori misure di austerity che il paese dovrà accettare come collaterale al prestito, post-porranno qualsiasi ipotesi di crescita necessaria per uscire dalla spirale del debito.
Per Vitor Bento, economista alla Sibs di Lisbona, «l’Europa ha fatto un grosso errore cercando di risolvere la crisi caso per caso. Ciò di cui abbiamo bisogno è una soluzione di sistema che copra tutte le economie periferiche». Di più, per Carlos Costa Pina, segretario di Stato al Tesoro portoghese, «non è affatto chiaro né automatico che accedendo al prestito dell’EFSF i nostri costi per il finanziamento scendano». In effetti, l’accesso al fondo di salvataggio rischia di rendere il credito corporate più oneroso e di deprimere ulteriormente stipendi e potere d’acquisto delle famiglie: un combinato letale per la crescita.
Per Ricardo Salgado, amministratore delegato del Banco Espirito Santo, uno dei principali istituti del paese, uno degli effetti immediati del salvataggio cui hanno aderito Grecia e Irlanda è quello di «un crollo del livello dei depositi bancari e della fuga di capitali all’estero». Teodora Cardoso, membro del direttivo della Banca centrale portoghese, ha rincarato la dose, affermando durante un convegno pubblico che «il piano di salvataggio greco non sta funzionando e non è sostenibile nel medio termine». Insomma, occorre che i leader Ue valutino bene costi e benefici di quanto stanno per decidere, visto che i mercati sono sì in stand-by, ma una loro idea se la sono già fatta chiaramente. Il mix di crescita negativa, costi del debito e il muro di rifinanziamenti attesi per il secondo trimestre di quest’anno grava come un macigno sul futuro europeo e quindi la quasi maggioranza degli investitori vede il salvataggio portoghese come inevitabile.
Certa di questa ipotesi è Goldman Sachs, secondo cui «il Portogallo necessita di fondi di emergenza, perché ha un problema nella bilancia dei pagamenti. Il salvataggio ci sarà». Non è così pessimista, né tranciante nei giudizi Jurgen Michels, capo economista per l’Europa a Citigroup, secondo cui «un credibile pacchetto di riforme posto in essere dai politici europei potrebbe essere sufficiente affinché il Portogallo eviti il salvataggio». Ma «il rischio è che il mercato riponga troppa fiducia e aspettative nell’azione della politica, già capace di tradire le aspettative in tal senso anche nel recente passato. Sono sempre più convinto che la crisi non raggiungerà la Spagna se si sbloccheranno fondi extra per l’EFSF, ma se non uscirà nulla dai meeting europei, allora il contagio sarà inevitabile».
Insomma, come detto all’inizio, siamo nelle mani della politica. Anche perché il timore di fuga di capitale estrinsecato dall’ad di Banco Espirito Santo è già divenuto realtà nella “salvata” Irlanda. Stando ai dati pubblicati dalla Banca centrale di Dublino, nel solo mese di dicembre le principali banche irlandesi hanno visto perdite nei loro depositi pari a 40 miliardi di euro, contro i 27 di novembre. Nel corso del 2010 sono stati oltre 110 i miliardi di euro usciti dai conti bancari del paese, qualcosa pari al 60% del Pil. «Secondo voi, dovrei lasciare i soldi in un’istituzione della quale non so chi fa le regole?», si chiede retoricamente Gary Jenkins della Evolution Securities.
Oltretutto, mercoledì Standard&Poor’s ha tagliato il rating sovrano irlandese di un notch ad A-, citando a giustificazione del downgrade «un outlook economico debole, ridotte prospettive di guadagni dal settore bancario e difficoltà di finanziamento per gli istituti irlandesi». Detto fatto, sono state oggetto di downgrade anche Bank of Ireland, Allied Irish, Anglo Irish e Irish Life, tutte colpite a causa dei dubbi riguardanti la capacità del governo di mantenere solvibili gli istituti, visto che «queste quattro banche continuano a dipendere a livello di finanziamento dalla Banca centrale, avendo un’acclarata incapacità di finanziarsi sul mercato se non attraverso garanzie statali».
Unite a questo quadro il fatto che il paese andrà a elezioni anticipate il 25 febbraio, con forte rischio di instabilità dovuta alla già annunciata performance di un partito populista e anti-Ue come il Sinn Féin e il quadro è completo. Il Fine Gael, principale partito di centrosinistra, ha già detto che se chiamato a guidare il paese non applicherà alla lettera il dettato del salvataggio Ue-Fmi e potrebbe imporre haircuts ai rendimenti obbligazionari a chi detiene bond delle banche collassate. E, come anticipato qualche settimana fa, se l’opposizione diverrà maggioranza cercherà immediatamente di rinegoziare il tasso a cui ottiene denaro dal fondo, ritenendo giustamente sproporzionato un livello a del 5,8% a fronte del 2,6% pagato dall’Ue: va bene fare i soldi con gli spreads, ma qui si tratta di non uccidere del tutto un paese.
Inoltre, a spaventare gli investitori potrebbe essere il fatto che il Fine Gael ha già fatto intendere di voler dar vita a un governo di coalizione con il Labour Party, ancora più estremo nei confronti dei creditori, mentre lo Sinn Féin, il vero outsider, ha già annunciato di voler dire al Fmi «di andarsene a casa e portare con sé i suoi soldi». Anche in questo caso, il destino di Dublino è in mano alla politica. Il problema è che la soluzione di compromesso a cui stanno lavorando funzionari tedeschi e dell’Unione europea in vista dei summit decisivi prevedrebbe la possibilità per il fondo di utilizzare tutti i 440 miliardi di cui dispone invece che i 250 attuali, vincolo legato alla necessità di maggior collaterale per garantirsi il rating AAA, a fronte però di un non aumento del volume di fondo.
Questo significherebbe maggiore contribuzione al fondo da parte di paesi non AAA come Italia, Belgio e Spagna, soldi in più che potrebbero non potersi permettere. Non a caso nella City già si parla dei bonds emessi dall’EFSF come «nuovi Cdo, una riedizione dell’infamia dei subprime in salsa istituzionale». Il futuro economico dell’Europa (il cui destino si gioca da qui alla metà di marzo) è per la prima volta quasi interamente nelle mani dei politici. Il Signore, oggi più che mai, ci assista.