Puntuale come morte e tasse, ieri – alla vigilia del vertice europeo di oggi – è arrivato il declassamento del rating sovrano spagnolo da AA1 ad AA2 da parte di Moody’s: detto fatto, euro in calo e borse europee a picco (gli ottimisti guardano il bicchiere mezzo pieno, cioè il dollaro in rialzo che abbassa il prezzo del petrolio, ma lo shock petrolifero ormai è in atto, lo ha confermato ieri anche Confindustria).

L’agenzia americana, che ha modificato anche l’outlook in negativo, ha giustificato il taglio con le persistenti preoccupazioni sulla sostenibilità delle finanze spagnole e sulla capacità del governo di Madrid di gestire i conti pubblici, specie sullo sfondo di prospettive di crescita economica solo moderate nel medio-lungo termine. A peggiorare il quadro, prosegue il comunicato, c’è la necessità per il governo di risanare un settore bancario in difficoltà, con costi che saranno superiori a quelli preventivati, dunque con ulteriori conseguenze negative sul debito pubblico.

Per finire, Moody’s citava anche l’elevata vulnerabilità che il Paese ancora soffre nei confronti dei rovesci del mercato. Come dire, vi siete impegnati in riforme reali, avete dato vita a un cura da cavallo per le cajas che i tedeschi non hanno fatto per le Landesbanken e questo è il premio: un bel downgrade! Da giorni vi mettevo in guardia sul fatto che fingere che un problema non esista, non porta alla sua soluzione: ed ecco che la crisi del debito dei paesi periferici riemerge, se possibile ancora più seriamente dello scorso ottobre, quando la signora Merkel e la sua sparata sui tagli dei rendimenti quasi mandavano a gambe all’aria l’eurozona.

Qualche numero? Mercoledì il Portogallo è arrivato quasi al punto di non ritorno, pagando il 6% di rendimento per piazzare obbligazioni biennali, mentre quello sul decennale è salito sopra il 7,8% dopo che la sempre più attiva agenzia di rating cinese Dagong ha a sua volta operato un downgrade del debito a livello BBB+. Per il segretario del Tesoro portoghese, Carlos Costa Pina, «questi livelli di interesse non sono sostenibili sul medio termine», accusando chiaramente l’Ue per la mancanza di una strategia coerente sul debito: «Il Portogallo non ha bisogno di un salvataggio, ma di urgenti misure comunitarie che riportino la fiducia sui mercati».

Per David Owen della Jefferies Fixed Income, l’annuncio della Bce riguardo un rialzo dei tassi è stato il detonatore della nuova ondata di crisi: «La Banca centrale europea, attraverso le sue azioni, ha reso inevitabile il salvataggio del Portogallo. Ci sono inquietanti paralleli con le azioni della Bundesbank durante la crisi del “serpente monetario” del 1992». Per Owen, inoltre, «la stessa Spagna non è ancora salva. Il Paese, infatti, ha un debito combinato di famiglie e aziende di 2,5 trilioni di euro, un livello spaventoso».

 

E il fatto che da Germania, Olanda e Finlandia non giungano segnali di distensione rispetto all’ampliamento del Fondo di salvataggio europeo, rendendolo capace di acquistare preventivamente i bonds dei paesi debitori o di prestare loro denaro affinché possano ricomprare il loro debito in una sorta di “ristrutturazione morbida”, fa capire che la soglia di allarme rosso sta per essere superata. Basti pensare che due giorni fa, per completare l’asta delle proprie obbligazioni, Lisbona abbia ricomprato all’asta parte del proprio debito in una mossa che doveva mostrare ai mercati la solvibilità del Paese e la solidità delle sue casse: peccato che abbia operato un buy back per appena 14 milioni di euro, gesto che di fatto ha sortito l’effetto contrario a quello sperato.

 

Per Louis Gargour di LNG Capital, «l’Ue farà troppo poco e troppo tardi, quindi sarà il mercato a dettare le soluzione». Il perché è presto detto: «La Grecia è già imprigionata in una spirale del debito inestricabile, visto che spende il 14,3% delle sue entrate fiscali per gli interessi da pagare. Non mi stupirebbe un taglio del 50% sul debito, una sorta di riedizione del Brady Plan durante la crisi del debito in America Latina». In effetti, la crisi greca sta evolvendo di male in peggio: il rendimento del bond decennale ha toccato quota 12,78% mercoledì e il tasso di disoccupazione a dicembre è arrivato al 14,8%, un promemoria tragico di come l’austerity stia colpendo il Paese.

E Moody’s, tanto per non lasciare nulla di intentato, dopo il declassamento di tre livelli del debito pubblico del Paese lunedì scorso, due giorni fa ha abbassato anche il giudizio sulle sei principali banche greche, a causa della scarsa liquidità, dell’esposizione al debito governativo e della qualità non buona delle attività. L’agenzia di rating ha declassato da Bar a Ba3 la Banca Nazionale di Grecia (Nbg), Eurobank, Alpha Bank e Piraeus Bank; e da Ba2 a Bi l’Agricultural Bank of Greece (ATEbank) e l’Attica Bank. La prospettiva (outlook) di questi istituti è definita “negativa” da Moody’s.

 

Il debito del Paese – attualmente al 156% del Pil – arriverà al 150% entro il 2013, anche se Atene si atterrà a tutti i diktat di Ue e Fondo Monetario: non a caso, due giorni fa il quotidiano Avriani, legato al partito di governo Pasok, ha scritto in prima pagina che «la Grecia dovrebbe fare default, tornare alla dracma e punire così gli squali dei prestiti stranieri che ci stanno dissanguando». Toni molto simili a quelli utilizzati in questi giorni di vigilia del vertice da molti quotidiani irlandesi, dove il nuovo premier di centrosinistra, Enda Kenny, ha parlato riferendosi a questo periodo come «l’ora più scura prima dell’alba».

 

Il governo irlandese intende rinegoziare i termini del suo prestito, con tassi d’interesse al 5,8% a fronte del 2,6% pagato dall’Ue per finanziarsi: se non riuscirà a ottenere questo risultato, il suo governo potrebbe costringerlo a un default sul debito senior delle banche (atto che comporterebbe un danno enorme per le Landesbanken tedesche). Per George Magnus di Ubs, «i leader europei stanno vivendo in un universo parallelo, incapaci di vedere che la crisi del debito europeo non può essere risolta se non affrontando il problema alla radice e ricapitalizzando le banche. La sequenza di questa route map per uscire dalla crisi deve partire proprio dalle banche, altrimenti si genererà la paura di un’altra Lehman Brothers. Sembra che Ue e Fmi stiano negando qualsiasi cosa abbiamo imparato dalla storia».

Di più, Magnus sottolinea come «le banche statunitensi hanno raccolto 200 miliardi di dollari in common equity in sei settimane, dando prova di una svolta. Se lo facesse anche l’Ue, la crisi sparirebbe». Il problema è che l’Europa parla con dieci voci, non una: se, infatti, Olli Rehn, commissario Ue alle politiche economiche, ha chiesto un taglio degli interessi punitivi contro l’Irlanda e altre misure che limitino l’impatto sui paesi più colpiti dalla crisi del debito, la Germania alza la voce in difesa della fermezza assoluta, arrivando a vincolare qualsiasi decisione firmata dalla Merkel in ambito europeo alla ratifica del Bundestag.

 

E l’Italia? C’è poco da sorridere. Mercoledì il rendimento pagato dal Btp decennale ha sfondato quota 5% (per l’esattezza 5,01%), il massimo da diciannove mesi con lo spread rispetto al Bund a 171 punti base. Un brutto segnale per un duplice motivo: primo, sale l’onere degli interessi passivi che lo Stato deve pagare. Secondo, le migliori azioni da cassettista in Borsa raggiungono a malapena il livello pagato dal Btp a 10 anni e scontano un rischio di mercato molto più alto, rischiando quindi di innescare una potenziale corsa all’obbligazionario alle spese dell’azionario. Insomma, c’è di cui stare allegri: viva l’Europa!