Non so voi, ma io ho una bruttissima sensazione: ovvero, che i governi europei siano talmente occupati a monitorare e gestire politicamente – un eufemismo, lo ammetto – quanto sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo, da aver dimenticato che l’Europa non gode affatto di ottima salute e che ogni giorno senza cure è un giorno in più che ci avvicina alla resa dei conti.

La pensa così anche Satyajit Das, consulente sul rischio e autore del bestseller “Traders, Guns & Money: Knows and Unknowns in the Dazzling World of Derivatives”: «I paesi periferici dell’Ue sono seriamente malati e dovranno fare default sul loro debito, prima o poi. La Bce, poi, finora ha trattato la questione come se fosse un problema di liquidità, ma adesso sarà costretta ad ammettere che quel debito non andrà via da solo. Ripeto, è come qualcuno con una seria malattia. Alcuni paesi europei hanno il cancro e bisogna essere onesti con loro e dirglielo chiaramente».

Anche perché, a differenza del Giappone, molti paesi europei hanno dato vita a possenti misure di austerity, operazioni che da un lato dovrebbero contenere la spesa e ridurre il debito, ma che dall’altro vedranno allontanarsi qualsiasi, anche minima, prospettiva di crescita: così per Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo. Prosegue Das: «Il problema di quei paesi è lo stesso: un debito che va ridotto perché non svanirà da solo grazie a qualche misura correttiva. Quelle nazioni non hanno sufficiente crescita, non hanno una base fiscale sufficiente e questo le mette in condizioni di non poter ripagare il loro debito. Punto, è tutto qui. E cosa ha fatto la Bce? Ha aiutato quei paesi comprando i loro bonds al mercato secondario e ha fornito capitalizzazione alle banche a tassi molto attrattivi, quando queste non erano in grado di finanziarsi sui mercati. E, come un cane che si morde la coda, le banche hanno comprato più debito governativo offrendolo come collaterale alle aste della Bce. Questo non ha fatto altro che mantenere viva l’illusione in base alla quale le nazioni hanno avuto accesso a fonti di finanziamento commerciale, ma è solo un’illusione».

Per Das, «se l’Ue non troverà un accordo sull’unione fiscale e sul continuo supporto, le pressioni sui periferici potrebbero raggiungere livelli insostenibili, trasformando l’ipotesi di default nella fine più probabile del gioco. Questo non colpirà solo gli Stati, ma anche le banche, condizione che obbligherà i governi tedesco, francese e britannico a iniettare liquidità negli istituti per garantire solvibilità. A quel punto si giungerà al collasso del meccanismo, perché le nazioni più ricche e forti dovranno sì continuare a pagare ma per le loro banche, non per aiutare altri paesi».

 

Insomma, paradossalmente sarebbe stato meglio seguire, per Grecia e Irlanda, il modello islandese: ovvero, scaricare il debito, lasciar fallire le banche, svalutare la moneta e creare le condizioni per ripartire. Non potendo svalutare l’euro o porre sul piatto l’ipotesi di un peg a cambio fisso (i Trattati non lo consentono), «l’Europa si trova bloccata per propria volontà in questo processo di enorme e stagnante sovragestione del debito». Che fare, quindi? Per Das, «il default di un Paese periferico non danneggerebbe affatto l’euro. L’Argentina è andata in default sui dollari e il dollaro è continuato a salire, quindi sono certo che un processo di ristrutturazione del debito in Irlanda o Grecia non avrebbe ripercussioni sulla moneta unica. Lasciare l’euro è l’unica opzione per queste nazioni deboli per salvare le loro economie: se restano nell’eurozona, sono destinate alla morte per asfissia».

 

Ma i problemi non riguardano solo Dublino e Atene. Lunedì scorso, infatti, il governo portoghese ha promesso all’Ue di tagliare il suo deficit di budget e implementare il processo di riforme ma, al contempo, il ministro delle Finanze, Fernando Teixeira dos Santos, ha avvertito che questo potrebbe comunque risultare vano se l’Europa non compirà azioni forti entro poche settimane per risolvere la crisi del debito. Insomma, più che un appello, un disperato grido d’aiuto in vista del vertice europeo della prossima settimana, che vedrà proprio il fondo salva-Stati e la sua implementazione al centro del dibattito.

«Ho paura che l’Europa non compia i passi necessari», ha detto chiaro e tondo dos Santos, spaventato sempre di più dai numeri del suo Paese: il premio che gli investitori chiedono per detenere debito portoghese a dieci anni rispetto al Bund è a 446 punti base, oltre 150 punti base di aumento dello spread in meno di tre mesi. A questo contesto, poi, bisogna aggiungere quello generale del rischio inflattivo, ieri per la prima volta citato chiaramente da Jean-Claude Trcihet, numero uno della Bce, nella consueta conferenza stampa dopo la decisione di politica monetaria di lasciare invariato all’1% il tasso di riferimento principale. Trichet, bontà sua, ha ammesso che «sussistono, nel breve periodo, evidenti segni di una pressione per la crescita dell’inflazione, soprattutto a causa dei prezzi dell’energia e delle commodities».

 

Questo rischio, però, non sembra modificare lo statement della Banca centrale europea sul medio-lungo periodo: «In questo caso i prezzi al consumo dovrebbero rimanere sotto, o vicini, al 2%», che è il target dell’istituto centrale. Ma, ennesima capriola, proprio per i problemi sul breve periodo «un aumento dei tassi di interesse dell’Eurozona, è possibile, non certo, già in aprile. Sarebbe comunque sbagliato – ha aggiunto Trichet che non ha voluto fornire alcun dettaglio sull’eventuale entità della stretta – interpretare le mie parole come l’inizio di una serie di aumenti dei tassi di interesse». Insomma, vi rendete conto in che mani siamo mentre ci arrovelliamo per decidere il futuro del Medio Oriente?

 

Se, come pare probabile, la Bank of England nella prossima riunione del Monetary Policy Committee alzerà i tassi di un quarto-mezzo punto, la Bce non potrà restare ad ascoltare i voli pindarici dell’eloquio di Trichet: dovrà muoversi di conseguenza in un contesto di debolezza e instabilità estrema. E Francoforte, purtroppo, non è in grado di gestire nemmeno l’esistente, figuriamoci l’imponderabile.

P.S. Avevo promesso di non toccare più l’argomento Nord Africa se non per notizie davvero degne di nota. Eccone una, rilanciata in Italia da Focus Medio Oriente: Israele raggiungerà l’indipendenza energetica nel 2013. Ad assicurarlo è l’uomo del gas, Yitzhak Tshuva, l’azionista di maggioranza del gruppo Delek Ltd., una delle maggiori compagnie petrolifere d’Israele. Parlando alla conferenza di Calcalist, importante sito d’informazione economica israeliano, Tshuva ha annunciato che la sua azienda, in collaborazione col partner americano Noble Energy Inc., sta spingendo l’acceleratore affinché il carburante fossile del giacimento offshore Tamar sia commercializzabile in tempi brevi.

 

Tamar, scoperto nel 2009, si trova nelle profondità del Mediterraneo, nello specchio d’acqua antistante Haifa. Gli studi hanno confermato che contiene gas a sufficienza per soddisfare la richiesta interna israeliana per diversi decenni. «Stiamo lavorando con l’orologio in mano – ha dichiarato l’uomo d’affari, uno dei più ricchi del Paese -, malgrado alcuni ritardi dovuti alla difficoltà di trovare finanziamenti, mi sento di affermare che riusciremo ad anticipare la scadenza fissata in origine. Il gas raggiungerà le coste israeliane nel 2013. Lo sviluppo energetico è una priorità senza eguali – ha aggiunto il miliardario -; in questi giorni, i disordini nel mondo arabo stanno causando un’impennata dei prezzi: noi dobbiamo credere in quello che facciamo, perché stiamo proteggendo lo Stato d’Israele e lo stiamo rendendo indipendente sul piano energetico. Essere attori di peso nel mercato globale dell’energia ci darà potere politico».

 

Negli ultimi dieci anni in Israele sono stati scoperti diversi giacimenti: oltre a Tamar, Dalit e Mari B., di dimensioni diverse ma comunque limitate, è stato rivenuto, sempre a largo di Haifa, Leviathan. Gli studi sono ancora in corso, ma i dati raccolti finora hanno mostrato la possibilità che vi si trovi una quantità di gas naturale ingentissima e forse persino di petrolio. Con buona probabilità, si tratta del giacimento più grande mai scoperto nel Mediterraneo: ora è chiaro, entro il 2013 gli equilibri mediorientali saranno cambiati drasticamente.