La scorsa settimana vi ho dimostrato come le vulgate tanto in voga tra le anime belle riguardo la speculazione come motore dell’aumento dei prezzi delle commodities alimentari siano in realtà delle grosse panzane e nulla più. Questo, però, non significa che i massimi che stiamo toccando in questi giorni non siano un qualcosa di preoccupante, soprattutto a livello di tensioni sociali, queste sì fomentate dagli atteggiamenti di protezionismo inaccettabile dei paesi produttori e dalla scarsezza delle riserve a fronte di una domanda sempre crescente: ieri la Fao ha denunciato ufficialmente la situazione, sottolineando i rincari record registrati da alcuni generi nel mese di marzo e prevedendo nuovi rincari prima di un rimbalzo, nonostante il Fao Food Price Index sia sceso a quota 229,8 punti dal record di febbraio, 236,8 punti.
Il prezzo del mais, ad esempio, è salito molto negli ultimi due giorni di contrattazioni e i numeri fornitici dall’Usda riguardo le scorte degli Stati Uniti stanno facendo venire il mal di testa a più di un trader, visto che gli Usa restano uno dei principali fornitori di mais per il mercato globale. Come ricorda Zerohedge, la scorsa settimana il prezzo dei futures sul mais hanno ancora una volta sfondato il tetto (come appare nel grafico più in basso): in soli cinque giorni di contrattazioni il prezzo è salito del 15%.
Come anticipato, la motivazione di questa dinamica dei prezzi sta tutta nella mancanza di riserve sufficienti a fronte di una domanda sempre più forte: negli Usa siamo a quota 6,5 milioni di bushels, il dato più basso dal 2007. Come diretta e logica conseguenza, il bushel viene trattato sopra i 7,5 dollari, solo frazionalmente distante dai massimi del 2008. Insomma, il combinato peggiore. Immediatamente, i coltivatori statunitensi hanno fiutato il business e sono tornati al mais: solo quest’anno sono stati seminati 92 milioni di acri a mais, il più grande incremento dalla Seconda Guerra Mondiale. Nonostante questo, il nuovo prodotto sul mercato non sarà sufficiente a incontrare la domanda e rimpolpare le riserve, visto che l’ubriacatura globale per i biocarburanti (quindi la trasformazione della destinazione d’uso delle piantagioni, da mais a etanolo, in nome dell’ecologismo miope ed engagé) e l’enorme aumento della domanda soprattutto dalla Cina, solo lo scorso mese ha portato a un calo di 200 milioni nelle riserve di mais. Inoltre, Pechino sembra destinata ad aumentare ancora la sua richiesta, arrivando per la fine di quest’anno a qualcosa come 3 milioni di tonnellate metriche.
Insomma, la crescita economica cinese e dell’intera Asia sta portando con sé un richiesta per grani, pollame e latticini molto superiore alle previsioni. Andando avanti di questo passo, nemmeno tutti i nuovi acri di piantagione del mondo potranno soddisfare la corsa globale verso il mais. E purtroppo, l’unica cura per prezzi alti è quella di prezzi ancora più alti. Basta guardare i grafici che circolano nelle banche d’affari per il short-to-near termine e appare chiaro che la spirale è rialzista: tutti stanno alzando le aspettative e Goldman Sachs ha portato il suo target short-to-near a 8,6 dollari il bushel (a tre mesi), che corrisponde a un ulteriore aumento di circa il 13% nei prossimi 90 giorni. Insomma, tolta l’opzione di un “cigno nero” in arrivo, l’ipotesi del mais a 9-10 dollari al bushel è tutt’altro che da escludere e solo allora i mercati potrebbero conoscere un raffreddamento: fino ad allora, sarà ancora pop corn per i prezzi!
Ma se questo significa rincari della filiera in Occidente e contrazioni nelle economie emergenti, altrove può significare altro: ovvero un elemento di destabilizzazione politica. Ieri, al termine del mio articolo, vi invitavo a tenere gli occhi puntati sul Messico, a mio modo di vedere nuovo e futuro focolaio di crisi, proprio nel giardino di casa degli Usa. Due le motivazioni: la prima, il tasso di instabilità e criminalità endogena del Paese, testimoniato ieri dall’ennesimo esempio di strapotere della bande narcos che gestiscono il traffico di droga e clandestini verso gli Usa. L’esercito messicano, infatti, ha scoperto due fosse comuni con all’interno una sessantina di corpi nella cittadina di San Fernando, nello stato messicano di Tamaulipas. Secondo, proprio l’aumento a dismisura del prezzo del mais, elemento fondamentale per il cibo-chiave della dieta messicana, le tortillas.
La cosa vi farà sorridere, ma un precedente al riguardo è poco distante dall’attualità: il 1 febbraio del 2007, infatti, 75mila messicani scesero in piazza a città del Messico per protestare violentemente contro il costo delle tortillas (il prezzo salì fino al 400% in 18 mesi), fenomeno che negli Usa venne subito ribattezzato “tortilla crisis”. Le manifestazioni di protesta, anche molto violente, sullo stile argentino, si susseguirono fino alla fine del 2008, quando la crisi finanziaria fece scendere i prezzi a livello globale. Insomma, un mix letale che fino a oggi non è ancora esploso per una sola ragione: il governo messicano è intervenuto massicciamente nel mercato di futures e opzioni sul mais al fine di dar vita a un hedge sul prezzo e, nell’eventualità di un aggravamento, per porre in essere una politica di sussidio verso la popolazione.
Dove sono i benpensanti che vogliono eliminare i futures sulle commodities alimentari? Preferivano una nuova crisi politica, magari morti nelle piazze di Città del Messico e Tijuana per una piadina di mais? Il problema è che la mossa messa in campo dal presidente Felipe Calderon per evitare una nuova “tortilla crisis” potrebbe non rivelarsi sufficiente, viste le prospettive di crescita del prezzo da qui all’estate. All’inizio dello scorso dicembre, i produttori di tortillas avevano avvertito che il prezzo sarebbe potuto salire del 50%, esattamente quanto accaduto nei mesi che precedettero la crisi del 2007.
Quasi in contemporanea, il ministro dell’Economia messicano ha cercato di calmare la gente annunciando, attraverso il Financial Times, l’acquisto di contratti futures che calmiereranno il prezzo e renderanno le scorte sufficienti fino al terzo trimestre di quest’anno: peccato che pochi giorni dopo, Lorenzo Mejia, presidente della National Tortilla Industry Union, rendeva noto che il prezzo medio per una tortilla da un chilo sarebbe potuto salire fino a 12 pesos (poco meno di un dollaro) a fronte della media nazionale di 9,88 pesos e quella di Città del Messico di 8,65 pesos.
All’epoca i timori erano giustificati dall’aumento del prezzo dei futures sul mais a un massimo da 29 mesi, a causa della siccità in Argentina, uno dei principali produttori globali: ancora una volta, sono le politiche di governo e i rovesci meteorologici a far salire i prezzi, non i pezzi di carta finanziaria. Ma a far temere che comunque le mosse governative potrebbero non essere sufficienti, ci ha pensato proprio l’annuncio ufficiale di acquisto di contratti futures: di solito, quando i governi fanno queste cose, stanno zitti. L’aver parlato, significa che i timori di rivolte – e di loro utilizzo strumentalmente politico contro il governo – sono molto alti.
P.S. La scelta di non occuparmi della decisione della Bce di alzare i tassi di 25 punti base o del Portogallo che si è deciso a chiedere il salvataggio all’Ue è stata voluta: nel primo caso, la mossa è tipica di un istituto di inetti e miopi che andrebbe smantellato. La Bank of England, infatti, ha mantenuto i tassi pressoché a zero poiché il poco di ripresa in atto è più importante della lotta all’inflazione, in Inghilterra al 4,4% contro il 2% previsto. D’altronde, anche un cieco si accorgerebbe che l’inflazione che stiamo scontando è tutta importata e non creata a livello interno, quindi alzare i tassi con il mercato già intasato dai soldi facili delle politiche espansive, serve solo a dare un ulteriore colpo al potere d’acquisto dei cittadini attraverso l’aumento delle rate dei mutui.
Per quanto riguardo Lisbona, c’è poco da dire: era scritto, ora la sfida è evitare il contagio alla Spagna, sia a livello bancario, per l’esposizione agli istituti lusitani, sia a livello obbligazionario. Vedremo la prossima asta di titoli iberici quali rendimenti pagherà per piazzare il debito sovrano. Per adesso, nonostante tutto, l’euro resta a quota 1,42 sul dollaro: vuol dire che gli Usa sono proprio alla frutta. Attenti a oro e, soprattutto, argento, però: il primo ha toccato quota 1462 dollari l’oncia dopo l’annuncio della Bce, il secondo flirta sempre di più con il punto di rottura spike dei 40 dollari, ieri pomeriggio a quota 39,60. A JP Morgan Chase cominciano a tremare…