Alla fine, come era scritto, Dominique Strauss-Kahn si è dimesso da Direttore generale del Fondo monetario internazionale: la sua recente critica al dollaro e la necessità di superamento del suo status di valuta globale gli è stata fatale, altro che il presunto stupro. Detto questo, è cominciata la corsa alla successione.
Stando alla ritualità, toccherebbe ancora a un europeo guidare l’istituzione nata dagli accordi di Bretton Woods, visto che i patti prevedono uno statunitense alla guida della Banca mondiale e un esponente del Vecchio Continente al Fmi. I criteri di nomina, poi, si basano sul peso che ogni Paese ha all’interno del Fondo, commisurato nella sua capacità di finanziamento, la metà fornita in oro e l’altra in contanti: stando a questo criterio, sarebbe l’Europa a rivendicare la leadership, visto che vanta il peso maggiore.
Inoltre, le regole impongono che il ruolo di Direttore generale non possa andare a un candidato dai 65 anni in su e che non si possa restare in carica oltre i 70 anni, norme che tagliano di fatto fuori tre nomi circolati con insistenza nei giorni scorsi: ovvero, il governatore della Banca centrale israeliana Stanley Fischer, l’adviser del governo indiano ed ex direttore proprio del Fmi, Montek Singh Ahluwalia, e il governatore uscente della Bce, Jean-Claude Trichet. Ma fu lo stesso Dominque Strauss-Kahn a porre le basi per un cambiamento statutario a partire dal 2012, aprendo quindi alle sempre più pressanti richieste dei paesi emergenti, i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, Cina, India) più il Messico, intenzionati a un cambio di direzione che rispecchi maggiormente gli equilibri economici mondiali, soprattutto a livello di tasso di crescita.
L’Europa non sembra, però, intenzionata a cedere, forte anche del lasso di tempo che divide l’obbligo urgente di una nuova nomina alla scadenza del 2012 per un riequilibrio degli assetti. Il Commissario europeo agli Affari monetari, Olli Rehn, ha sottolineato come sia essenziale che il successore di Strauss-Kahn «sia scelto sulla base del merito e della competenza e per la persona che sarà scelta a ricoprire questo incarico conoscere l’economia europea è una nota di merito», mentre José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha detto chiaramente che il successore «dovrà essere europeo». E, proprio per evitare di farsi bruciare, tutti i soggetti interessati hanno cominciato a muovere le loro pedine.
Ieri è emersa come candidatura principale quella del ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde, 55enne molto stimata a livello mondiale e potenzialmente prima donna alla guida del Fmi, un segnale di discontinuità che potrebbe trovare pareri concordi anche tra i paesi emergenti. Ex campionessa di nuoto sincronizzato, prima donna a presiedere il prestigioso studio legale statunitense Baker MacKenzie, la Lagarde parla perfettamente inglese ed è stata votata miglior ministro delle Finanze europeo dal Financial Times nel 2009.
A remarle contro la nazionalità, visto che la Francia ha guidato il Fondo per 26 degli ultimi 33 anni e che l’imbarazzo provocato a Parigi dall’arresto di Dominque Strauss-Kahn potrebbe non rendere possibile la carta della continuità. Inoltre, Nicolas Sarkozy non sembra intenzionato a perdere una personalità simile nel corso del semestre di presidenza francese dell’Ue. Il bookmaker inglese WilliamHill, citato dall’Economist, le accredita però una quota di successo di 14 a 1.
In cima alla lista dei favoriti, sia per i bookmaker che lo bancano 5 a 2, sia per gli analisti, ci sarebbe Kemal Dervis, 62enne ex ministro delle Finanze turco, stimato a livello mondale per aver salvato la Turchia dalla crisi finanziaria nel 2001 attraverso un duro piano di riforme e ottenendo un salvataggio multimiliardario proprio dal Fmi. Dervis lasciò la Turchia nel 1978 per entrare alla Banca mondiale, divenendone vice-presidente nel 1996: ritornò in patria proprio nel 2001 quando Ankara si trovava ad affrontare fallimenti bancari, inflazione crescente e svalutazione selvaggia della moneta. Oggi è vice-presidente e direttore del programma Global economy and development della Brookings Institution, un think tank di Washington. A remargli contro, come per la Lagarde, la nazionalità, visto che lo status di mercato emergente della Turchia all’interno dell’Europa potrebbe essere letto dai Bric come una scelta di farli fuori dalla corsa al top job utilizzando un mezzuccio (la Turchia, infatti, non fa parte dell’Ue).
Altro candidato forte, bancato 7 a 1, è l’ex presidente della Bundesbank, Axel Weber, in carica dall’aprile 2004 al mese scorso e membro del consiglio di governo della Bce, alla cui guida è stato scalzato da Mario Draghi. Recentemente nominato professore di economia alla University of Chicago Booth School of Business, Weber vanta contatti a livello internazionale che lo rendono la personalità adatta al ruolo, ma bisognerà vedere quanto Angela Merkel intenderà spendersi per lui, dopo che la guida della Bce è passata in mano italiana proprio a discapito di Berlino.
Tra gli outsider graditi ai Bric c’è poi Trevor Manuel, 55enne ex ministro delle Finanze sudafricano bancato 20 a 1 da WilliamHill. Molto conosciuto e rispettato nei circoli finanziari mondiali per la gestione del suo dicastero dal 1996 al 2009, è da tempo accreditato per la guida sia del Fmi che della Banca mondiale: nato a Cape Town durante l’apartheid, Manuel è un membro fondativo dello United Democratic Front e per questo è stato più volte incarcerato negli anni Ottanta. Ha sconfitto lo scetticismo della comunità di investitori, tramutandosi in liberista perfetto e attraendo molti investimenti esteri nel Paese per garantire una transizione al post-Mbeki nel 2008.
Altro nome gradito ai Bric è quello del messicano Agustin Carstens, 52enne governatore della Bank of Mexico dallo scorso gennaio dopo una lunga carriera accademica. Dal 2003 al 2006 è stato un apprezzato deputy managing director del Fmi, prima di tornare in patria per coordinare le politiche economiche del presidente Felipe Calderon e diventare ministro delle Finanze. Laureato in economia a Chicago, è un fautore della deregulation e del lasseiz-faire liberista in economia. Il fatto di essere esponente del continente americano è però il grande ostacolo che gli si pone dinanzi, essendo la Banca mondiale guidata dallo statunitense Robert Zoellick. William Hill lo banca infatti 25 a 1.
Addirittura non bancata, ma molto spinta dai Bric, è poi la candidatura del 54enne Arminio Fraga, ex governatore della Banca centrale brasiliana dal 1999 a 2002. Fautore del rialzo dei tassi d’interesse al 42% nel 1999 per combattere la svalutazione della moneta, Fraga ha lavorato per sei anni come direttore generale del fondo di George Soros a New York prima di fondare l’hedge fund Gavea Investment, poi venduto a JP Morgan Chase: proprio questa sua familiarità con il mondo della speculazione, oltre alla nazionalità, rendono la sua candidatura solo di cartello.
Decisamente alte, invece, le quotazioni per Mark Carney, 46enne governatore della Bank of Canada bancato 10 a 1. Forte di tredici anni di lavoro a Goldman Sachs, Carney potrebbe bypassare la regola delle provenienze nazionali trasformando il Canada in una sorta di terra neutrale come la Svizzera e vendendosi con il ruolo di pontiere tra interessi regionali in competizione tra loro. Interpellato lunedì scorso riguardo il post-Strauss-Kahn, Carney ha detto che «la scelta deve basarsi unicamente sul merito e non sulla nazionalità». Una chiara autocandidatura per l’uomo che è oltre la metà del suo settennato alla guida della Banca centrale canadese.
E la sorpresa? A Londra non si fa mistero che Gordon Brown, 60enne ex ministro delle Finanze ed ex premier laburista, punti al posto da tempo, visto anche il suo attivismo sul fronte delle riforme delle regole finanziarie globali del post-Lehman Brothers e il suo profilo di europeo di madrelingua inglese che potrebbe mettere d’accordo anche gli statunitensi e parte dei Bric, soprattutto Brasile e Cina, ma non la Russia, che durante il suo governo diede vita a uno dei più duri braccio di ferro diplomatici dalla fine della Guerra fredda. WilliamHill lo banca 8 a 1: tenetelo d’occhio.
P.S. Nel tardo pomeriggio di ieri, Barack Obama ha tenuto una conferenza stampa annunciando una sorta di piano Marshall per aiutare le democrazie in Medio Oriente, ovvero miliardi di dollari. Da dove li prende, però, visto che gli Usa ha toccato lunedì scorso il tetto legale di debito? Si stampa!
Serviva un casus belli per far digerire a tutti una terza ondata di quantitative easing che continuasse a mantenere artificialmente in vita i mercati, eccolo pronto (l’alternativa era un altro flash crash, idea che aveva stuzzicato la mente di qualcuno a Washington). E poi c’è il Fondo monetario internazionale, che magari metterà meno soldi per salvare i paesi della vecchia e noiosa Europa e li dirotterà verso il sangue giovane delle rivolte arabe che tanto sta a cuore a Barack Obama e alla sua amministrazione, preoccupata per l’attivismo africano della Cina e per il destino del petrolio mondiale.
Anche perché, coincidenza dopo coincidenza, da ieri il Fmi è senza capo e su Facebook i sedicenti ribelli egiziani hanno annunciato per il 27 maggio “la seconda rivoluzione della rabbia”, annunciando di tornare a piazza Tahrir «per rimpiazzare il Consiglio con un nuovo Consiglio presidenziale civile». Al Dipartimento di Stato non piaceva la piega che avevano preso le cose in Egitto, urge un altro cambiamento eterodiretto: viva la spontanea rivoluzione araba finanziata con i soldi falsi di Barack Obama e Ben Bernanke!