Ma l’Europa dei default a catena è forse guarita? La crisi del debito Usa (cui ieri è seguito un bel balzo in avanti delle richieste iniziali di disoccupazione, salite di 474mila unità contro le 410mila previste), la debolezza del dollaro e la corsa di petrolio, oro e argento nelle ultime settimane (quella dell’argento, grazie alla scelta del Cme di alzare per la quinta volta i margini, sembra terminata, essendo passato da 50 a 37 dollari l’oncia, con grande sollievo per JP Morgan) hanno in effetti fatto passare in secondo piano la situazione sovrana europea, con due Stati in default tecnico (Irlanda e Grecia) e uno costretto a richiedere l’aiuto di Fmi e Ue, quel Portogallo che proprio l’altro ieri ha concordato con Fmi e Ue un prestito da 78 miliardi di euro in tre anni.
Ma non sempre il silenzio dei media non corrisponde a un miglioramento della situazione. Anzi. I rendimenti delle obbligazioni decennali di questi paesi sono ormai a livelli record, artificiali, completamente insostenibili per la casse statali: il bond a 10 anni portoghese prezza circa il 9,67%, quello irlandese il 10,35% e quello greco il 15,28%. Appare ovvio che la Grecia – così come i suoi sfortunati compagni di viaggio – non possa sostenere l’attuale peso del debito, ma ogni passo unilaterale potrebbe innescare un disastroso effetto domino nell’Eurozona e non solo.
Che fare, quindi? Un’opzione c’è, ma per essere applicata occorre che i governi europei e la stessa Bce ammettano ciò che fino a oggi hanno negato: ovvero, che quella in atto è un crisi bancaria e non sovrana, con le banche tedesche e francesi in prima linea con esposizioni monstre verso i paesi cosiddetti “periferici” sull’orlo del default. Grazie a Dio, per ora, Jean-Claude Trichet pare non voglia tenere fede alla sua promessa di ulteriori aumenti dei tassi in nome della lotta all’inflazione, visto che ieri la Bce ha mantenuto stabile quello di riferimento.
C’è da sperarlo per due motivi. Primo, l’inflazione è importata e non generata da domanda o crescita domestica, la Bank of England in tal senso ha fatto scuola. Secondo, l’aumento del prezzo del denaro non farà altro che aumentare la scissione tra l’Europa “core” e quella periferica: molto del debito che ha portato Grecia, Irlanda e Portogallo sull’orlo del fallimento è detenuto da banche dell’Europa “core” e questo porterà, di fatto, a un’Europa spaccata in due. Dato per assodato questo necessario cambio di atteggiamento, si potrebbe agire in tre step.
Primo, risolvere alla radice il problema delle banche francesi e tedesche, le vere e uniche beneficiarie dei salvataggi attraverso gli aiuti ai paesi verso cui sono esposte. In base al meccanismo di salvataggio proposto, infatti, il peso maggiore ricadrà sulle nazioni con rating AAA (Germania, Francia, Finlandia, Austria e Olanda): perché, quindi, non utilizzare questa forza finanziaria del Nord Europa per puntellare le banche di quei paesi esposte a perdite potenziali presso le banche dei periferici in crisi?
Questo, di fatto, eviterebbe ulteriore stress alle banche, già sotto pressione per le necessità di aumento di capitale richiesto da Basilea III, un vero incubo per gli istituti tedeschi. Tanto varrebbe che invece di raccogliere nuovi fondi dagli azionisti, le banche facciano richiesta per un finanziamento di salvataggio in proporzione alle previsioni di perdita sui prestiti presso banche e governi periferici. I fondi sarebbero distribuiti attraverso il meccanismo di salvataggio proposto, anche al fine di evitare l’infrazione delle leggi comunitarie sugli aiuti di Stato.
Il finanziamento potrebbe essere strutturato in modo tale da contare come capitale Tier 1, ma, al tempo stesso, le banche dovranno essere incoraggiate a ripagare e dovranno essere applicati tassi d’interesse a valore di mercato ed equity kickers, ovvero opzioni concesse a particolari categorie di finanziatori a titolo di capitale di debito che consiste nella possibilità di sottoscrivere una partecipazione minoritaria al capitale di rischio. Tanto più che, nel complesso, è alquanto probabile che i fondi pagati da Francia e Germania al meccanismo di salvataggio Ue finiscano per andare a supportare proprio le loro banche esposte. Lo si faccia allora in modo più efficacie e trasparente.
Il secondo step consisterebbe nel ricapitalizzare e fondere, ove necessario, le banche dei paesi più esposti, Grecia, Irlanda, Portogallo e forse Spagna, la quale in effetti ha già cominciato un processo di mergering delle cajas, le casse di risparmio, sotto stimolo e supervisione governativa. Gli irlandesi hanno dimostrato che questa strada è percorribile, visto che hanno chiuso i “casi terminali”, svenduto i prestiti tossici a tasso di sconto, imposto tagli ai creditori junior e fuso il meglio di ciò che di sano è rimasto in due banche di sostegno al sistema. Particolare attenzione, poi, andrà dimostrata anche per quanto riguarda il sistema bancario italiano, non certo nelle condizioni dei periferici, ma in alcuni casi fragile, soprattutto alla luce delle sfide di stress tests e nuovi criteri imposti da Basilea III: stante l’esposizione francese e tedesca, il nostro sistema non può permettersi di barcollare.
Terzo e ultimo step, ristrutturare il debito sovrano di Grecia, Portogallo e Irlanda, operazione che potrebbe avvenire sotto forma di combinato tra haircuts immediati, differimenti dei tassi d’interesse ed estensione sulle scadenze. Sia le banche di quei paesi che quelle dell’eurozona, d’altronde, avranno già fatto le loro previsioni riguardo questa eventualità nel corso dei due step precedenti. I prestiti del Fmi e dell’Ue devono formare parte dell’accordo e non semplicemente mantenere le loro seniority attuali, i programmi di rimborso e i tassi d’interesse penalizzanti.
Dal canto loro, i governi di questi paesi devono accettare di soddisfare i criteri imposti dal Patto di stabilità e crescita e premere per riforme fiscali ed economiche, con controlli stringenti e periodici da parte dei regolatori. Senza queste decisioni, la Grecia non ce la farà, l’Irlanda probabilmente sì ma pagando il prezzo di molti anni di mancata crescita e austerity e il Portogallo, mano a mano che passano i giorni, appare in una situazione molto simile a quella di Atene. Un default sul debito sovrano distruggerebbe le banche di questi paesi e causerebbe un effetto domino in tutta l’eurozona e il Regno Unito: per mantenere in piedi questo castello di carte servirebbero tantissimi soldi e Fmi e Ue si tramuterebbero in prestatori di unica istanza.
Attraverso i tre steps descritti, si evita di puntellare casi disperati e si diversifica il denaro verso allocazioni in cui può essere utilizzato per creare crescita. Questo potrebbe richiedere molto denaro, forse l’intero capitale di 750 miliardi di euro in garanzie e prestiti dello European Stability Mechanism (Esm), ma solo una piccola parte di questi soldi potrebbe rivelarsi irrecuperabile, anche se ci vorrà parecchio tempo perché sia ripagata. Inoltre, questa opzione permetterebbe la partecipazione del mercato: prestando all’Esm e direttamente ai periferici.
Molte banche europee stanno operando con profitto e stanno ricostruendo i loro balance sheets, ma potrebbero fare molto di più con uno spazio di maggior respiro e senza l’incubo del combinato disposto esposizione/ricapitalizzazione: se i periferici saranno salvati, gli investitori certamente saranno ben felici di investire i loro quattrini in equity bancarie e obbligazioni. Insomma, una soluzione europea che porterebbe all’utilizzo “locale” del denaro dei contribuenti e disinnescherebbe, almeno in larga parte, i reali pericoli che oggi gravano sul Vecchio Continente: ovvero esplosioni di rabbia popolare e disordini, collassi bancari e crisi economiche su scala generale.
L’alternativa è la fine dell’Ue o la sua rimodulazione a due velocità, sviluppo che comunque non si può escludere se al risanamento dei conti non seguirà, in fretta, un piano europeo per la crescita e lo sviluppo. Non si vive solo di regole, parametri, lotta all’inflazione e interventi salva-debito. Per ora, però, pensiamo a puntellare le fondamenta. Una cosa alla volta, ma con una certa rapidità, per favore.