Due giorni fa, nel silenzio più assoluto, la Reuters ha certificato l’imminenza di uno sviluppo inevitabile: un default di breve durata degli Stati Uniti (anche se personalmente non riesco a concepire questo ossimoro e il fatto che nemmeno per un giorno la cosiddetta moneta di riserva globale possa essere garantita da una nazione tecnicamente insolvente. Ma si sa, io sono un pessimista cosmico). E a confermare che questa opzione sta diventando palpabile con il passare dei giorni, la Cina ha annunciato attraverso Li Daokui, adviser della Banca centrale di Pechino, che «gli Stati Uniti stanno giocando con il fuoco se optano per fare brevemente default sul loro debito, una scelta che può seriamente danneggiare il dollaro».

Ma perché questa accelerazione? Semplice: un numero sempre crescente di Repubblicani non crede alle predizioni di catastrofe del governo Obama in caso il tetto di debito non sia aumentato e, anzi, pensa che un periodo di default tecnico possa essere gestito senza gettare i mercati nel caos. Tra i capitani coraggiosi in questione spicca Tim Pawlenty, ex governatore del Minnesota e da un mese autocandidatosi alla Casa Bianca, secondo cui se portasse a immediati e profondi tagli della spesa, un default di breve termine sarebbe quasi una manna: in effetti, lancerebbe al mondo il messaggio che la follia fiscale Usa è giunta a un termine e, per paradosso, trasformerebbe i bonds del Treasury in un vero e proprio bene rifugio globale.

I rischi legati a un’operazione simile, però, sono enormi, catastrofici. Lo certifica David Frum, ex consigliere e speechwriter di George W. Bush e uno dei pochi difensori in casa Repubblicana dell’innalzamento del tetto di debito: «Devo ancora incontrare un solo Repubblicano che dica che un possibile fallimento nell’innalzamento del limite di indebitamento lo spaventa. E davvero preoccupante il numero di Repubblicani con cui parlo – incluso i vertici – che pensa che un default tecnico sia gestibile». Non la pensano così, invece, a Wall Street, dove in molti ritengono che anche un default breve potrebbe causare un innalzamento secco dei tassi d’interesse nel mondo e un tonfo del dollaro, un qualcosa che riporterebbe la fragile economia Usa in recessione e potrebbe scatenare un caos sui mercati simile a quello seguito al collasso di Lehman Brothers.

Perché, quindi, in casa repubblicana si punta all’azzardo? Perché lo ha detto il leggendario businessman Stan Druckenmiller, un tempo alleato di George Soros, dichiaratosi favorevole a un default di breve termine se in cambio i legislatori raggiungeranno un accordo per enormi tagli alla spesa e per un piano di medio termine finalizzato a bloccare il deficit di 1,4 trilioni di dollari. Per Vin Weber, stratega storico dei Repubblicani e anima moderata del partito, «questa tesi ha avuto un forte impatto all’interno del partito e direi che oramai rappresenta la posizione ufficiale».

Cercate però di convincere della bontà di questa opzione Priya Misra, capo dei ricercatori sui tassi d’interesse a Bank of America-Merrill Lynch, secondo cui «25,6 miliardi dollari in pagamenti di interessi del Tesoro a scadenza 15 agosto potrebbero essere a rischio in caso la deadline del 2 agosto per l’innalzamento del tetto di debito non sarà rispettata. Se gli Stati Uniti faranno default, i money market mutual funds che investono in obbligazioni governative a breve termine, uno degli investimenti considerati più sicuri, potrebbero incorrere nel cosiddetto “breaking the buck”, ovvero vedere il valore del loro Nav (Net asset value) precipitare sotto 1 dollaro per azione». E il risultato di tutte queste perdite potrebbe dar vita a una corsa agli sportelli simile a quella vissuta quando Lehman Brothers passò a miglior vita.

Altrettanto pessimistico il giudizio al riguardo di James Bullard, non un keinesiano a oltranza, ma il presidente della Fed di St. Louis, secondo cui «la situazione fiscale Usa, se non gestita correttamente, potrebbe trasformarsi in uno shock macro a livello globale. L’idea che gli Usa potrebbero minacciare un default è pericolosissima». Ancora più duro Jim Rogers, ad della Rogers Holding, che interpellato dalla Cnbc ha detto chiaramente che «gli Stati Uniti stanno andando incontro a una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008. I debiti in questo Paese stanno schizzando alle stelle, negli ultimi tre anni il governo ha speso enormi quantità di denaro che si trasformano in enorme debito sulle spalle della Fed. A questo punto siamo al non ritorno e quindi, cosa faremo la prossima volta che una crisi si paleserà? Stampiamo ancora moneta?». Dove tagliare, quindi? «Abbiamo truppe in 150 Paesi nel mondo e non ci stanno portando nulla di buono, stanno solo creandoci dei nemici e ci costano una fortuna». E chi deve andare sul banco degli imputati per questa situazione? «Ben Bernanke è un disastro, non ha mai fatto nulla di buono da quando è a Washington. Spero che ora non se ne venga fuori con un QE3, sembra che l’unica cosa che sappia fare è stampare moneta, ma non mi faccio illusioni: anche se con un altro nome o formula, daranno vita a una nuova ondata di stimolo. Bernanke sarà terrorizzato dalla situazione e anche a Washington: c’è un elezione presidenziale fissata per il novembre del prossimo anno e quindi Washington stamperà sicuramente nuova moneta».

Insomma, l’autostrada che collega New York agli Hamptsons, il mare chic della Grande Mela, sarà molto meno trafficata questa estate, visto che i traders obbligazionari non lasceranno più l’ufficio alle 10 del mattino del venerdì per raggiungere la moglie, ma resteranno incollati ai loro terminali fino a sera per avere anticipazioni sulla news del momento, l’insolvenza Usa. Fin qui il fronte meramente interno, pur profondamente interconnesso al sistema finanziario globale. Ma c’è dell’altro che bolle in pentola e giustifica i toni ultimativi utilizzati dalla Cina verso Washington.

Da ieri è infatti ufficiale che con il 20,3% di consumo energetico globale, la Cina ha superato gli Stati Uniti divenendo primo consumatore al mondo. Lo ha certificato la Statistical Review of World Energy a cura della British Petroleum, ricordando come l’economia cinese non sia ancora nemmeno la metà di quella Usa e ponendo quindi in prospettiva di crescita esponenziale quel dato percentuale, in caso Pechino persegua l’obiettivo di trasformarsi da gigante dell’export a società basata sui consumi. Il petrolio resta la fonte energetica principale con il 33,6% del consumo globale e Bp stima che vi siano attualmente riserve in grado di garantire forniture per i prossimi 46,2 anni di produzione globale: tutto bene, quindi? Non proprio, visto che mercoledì i ministri dell’Opec non hanno trovato un accordo per l’aumento della produzione di petrolio: per tale motivo, quindi, la produzione rimarrà ai livelli attuali, almeno per altri tre mesi. Detto fatto, il prezzo del petrolio Wti ha registrato un balzo dell’1,75% sopra quota 100 dollari nonostante, guardando in faccia la realtà, non ci sia ragione.

Perchè? L’Opec è di fatto un ex cartello, è un’organizzazione defunta, un simposio di satrapi in decadenza le cui decisioni contano poco e niente sulle dinamiche reali di domanda/fornitura (il balzo in avanti del prezzo è pura e semplice speculazione). Basta rileggere le parole recentemente pronunciate da Khalid al Falih, amministratore delegato dell’azienda petrolifera statale saudita Aramco, secondo cui all’attuale tasso di crescita del consumo petrolifero interno dell’Arabia, da qui al 2028 Riad brucerà circa 8,3 milioni di barili al giorno del suo stesso petrolio, circa un terzo della sua produzione. In altre parole, i sauditi promuoveranno azioni unilaterali sul loro petrolio per scopi di propaganda e stabilità interna e per supportare la loro presunta espansione economica.

Come regge l’equilibrio, quindi? Grazie a un soggetto che non era nemmeno seduto al tavolo dell’Opec a Vienna nonostante produca 10,26 milioni di barili al giorno (dato riferito al maggio scorso): la Russia. Già, è stata Mosca a offrire il surplus all’export mondiale negli ultimi dieci anni di esportazioni fallite dall’Opec: in altre parole, l’ex cartello petrolifero è morto e la Russia non solo sta assumendo un profilo fondamentale riguardo le forniture energetiche globali, ma anche una nuova statura politica: notato, al riguardo, l’assordante silenzio dei solitamente impiccioni Usa sull’affaire Russia-Bielorussia di questi giorni? Eh già, Washington sta nei fatti rimangiandosi tutti i suoi cable al veleno riguardo la pericolosità dei rapporti tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin e mira, giocoforza, a diventare il miglior amico dell’ex capo del Kgb. Il quale, non a caso, punta di nuovo alla presidenza e ha imposto come priorità nazionale il fatto che la Russia mantenga una produzione superiore ai 10 milioni di barili al giorno per i prossimi dieci anni.

Silenziate le proteste di Washington, costretta all’appeseament dalla necessità di petrolio e ora che l’asse della geopolitica energetica globale è stato ridefinito, aspettiamoci un attivismo russo nell’area europea confinante con i confini della Federazione: è questa la scommessa del Cremlino, benedetta da Pechino poiché gradualmente e lentamente, la nuova coppia in fatto di riserva monetaria sta spostandosi verso il cosiddetto Cny/Rub, ovvero yuan e rublo. E in tal senso, le prove ce le ha fornite pochi giorni fa il ministro delle Finanze russo in persona, Alexei Kudrin, il quale ha confermato come le riserve valutarie e aurifere nazionali abbiano conosciuto un exploit del +44% negli ultimi cinque mesi, raggiungendo quota 516 miliardi di dollari. Più specificatamente, le riserve in oro sono salite da 35,77 miliardi di dollari a 40,95 miliardi di dollari, un incremento del 14,45% in cinque mesi.

 

 

Parlando alla riunione dei ministri delle Finanze della Csi, Kudrin ha dichiarato che «questo prova che il rublo russo è forte. Oggi il rublo può essere utilizzato per regolamenti internazionali, non ci sono restrizioni per la nostra moneta. Il rublo è una moneta convertibile». Ecco spiegato l’accumulo di oro, una scelta per rafforzare il rublo contro le valute internazionali come dollaro e euro: insomma, a Mosca si pensa chiaramente a un rublo gold-backed.

Il mondo cambia, gli equilibri geopolitici e geofinanziari anche: fossi nei Repubblicani statunitensi ci penserei mille volte prima di optare per il breve default tecnico. A meno che questo non sia strumentale ad altro: in tal caso, anche l’elezione out of the blue di Barack Obama troverebbe un senso ex post.