Nel giorno in cui terminava ufficialmente il secondo round di allentamento quantitativo della Fed e in cui Barack Obama chiedeva ai Repubblicani di votare a favore dell’aumento delle tasse per ridurre il deficit, Standard&Poor’s mandava un segnale inequivocabile all’amministrazione Usa: se il 4 agosto prossimo il Paese non sarà in grado di onorare i pagamenti del debito in scadenza, il suo rating AAA verrà decapitato a livello di “selective default”.

John Chambers, direttore esecutivo di S&P’s e capo del comitato sui rating sovrani, ha chiaramente minacciato il rating “D” per i Treasuries a scadenza 4 agosto se il governo fallirà nel suo dovere di pagamento. Anche gli altri titoli Usa subiranno un declassamento, ma non di questa entità, ha confermato poi Chambers. Insomma, un ultimatum di quelli seri, frutto anche del collasso all’inizio di questa settimana delle trattative tra Democratici e Repubblicani sull’annoso tema dell’innalzamento del tetto di debito: il 4 agosto, il Dipartimento del Tesoro sarà chiamato a pagare 30 miliardi di debito a maturazione di breve termine e proprio per evitare la mannaia del rating a fronte dello stallo politico, qualcuno comincia ad avanzare soluzioni d’emergenza come la prioritazione dei pagamenti del debito, una scelta che però Timothy Geithner, segretario al Tesoro, pare aver già scartato perché ritenuta comunque un brutto segnale da mandare ai mercati.

Anche perché, visto che gli Usa prendono a prestito 40 centesimi per ogni dollaro che spendono, una prioritazione dei pagamenti senza un innalzamento del tetto di indebitamento imporrebbe un taglio del 40% di tutte le spese governative. La minaccia di Standard&Poor’s giunge dopo quella avanzata il 2 giugno scorso da Moody’s, anch’essa pronta a declassare il rating Usa in caso di default sul tetto di indebitamento, anche se non a livelli così drammatici, limitandosi a una valutazione di downgrade Aa. Ma a far intravedere una mossa strategica da parte di S&P’s è lo stesso Chambers, secondo cui l’ipotesi di default Usa è estremamente bassa, visto che come successo più di settanta volte dal 1960 a oggi si giungerà a un innalzamento del tetto all’ultimo minuto utile.

Il timore reale è quello riguardo la capacità del governo di tagliare il deficit nei prossimi due anni, visto che le elezioni presidenziali del prossimo anno renderanno pressoché impossibile un accordo bipartisan. Ma il quadro statunitense, come appare ormai ovvio, sconta anche l’estrema interconnessione del sistema economico e finanziario e deve fare i conti con una criticità e una sorta di giallo internazionale. Partiamo dalla prima. Nelle ultime due settimane, nonostante la tragedia greca in atto, l’euro ha retto sui mercati valutari, segnale duplice sia di debolezza del dollaro, sia della presenza di un cavaliere bianco del forex intento a comprare divisa europea per mantenere a galla l’eurozona. Di chi si tratta? Della Cina, ovviamente, forte di 3 triliardi di dollari in riserve estere (il 60% dei quali in dollari) ed estremamente interessata a sorreggere l’Europa per mantenere intatti i rapporti commerciali.

D’altronde, chiunque segua quotidianamente il pattern euro/dollaro avrà notato come negli ultimi due mesi i mercati erano soliti vendere euro sui rally visto che la Cina voleva comprarlo in discesa, un qualcosa che garantirebbe il mantenimento delle condizioni di range fino a quando le implicazioni a lungo termine della Grecia saranno chiare. Ma quanti dollari ha venduto la Cina, ovvero quanti euro ha comprato? Tanti, visto che per Bank of America-Merrill Lynch nelle ultime quattro settimane la Cina è divenuta venditore netto di dollari, tramutati in euro: le stime parlano di 2 miliardi di dollari venduti in ogni sessione di contrattazione, un terzo dei quali convertiti poi in euro.

Insomma, una cifra enorme che potrebbe essere soltanto l’antipasto di un impegno più massiccio della Cina in Europa da qui al 2016: stando a stime Usa, la China Investment Corporation (Cic) potrebbe investire 500 miliardi di euro nel Vecchio Continente nei prossimi cinque anni, il 20% dei quali verso i cosiddetti periferici. Per quanto, però, la Germania accetterà la manipolazione della valuta comune da parte della Cina, visto che un euro sopravvalutato stronca l’export? Il problema è che Berlino potrebbe trovarsi a breve tra la Scilla della swap line del forex Fed e la Cariddi del modello mercantilista cinese: cosa scegliere, a quel punto? Ma veniamo ora al giallo.

Insieme ai dollari, la Cina sta scaricando anche debito pubblico Usa, di cui è principale detentore insieme alla Fed? Per capire qualcosa al riguardo occorre scomodare la decisione Usa di cambiare le regole delle aste di bond governativi, un qualcosa di apparentemente tecnico e procedurale che invece implica una situazione più seria: a giudizio del Tesoro Usa, infatti, la Cina starebbe comprando molto più debito Usa di quanto sia dichiarato, una potenziale violazione della regolamentazione delle aste che ha spinto l’organismo guidato da Tim Geithner a chiedere che questi acquisti avvengano alla luce del sole.

Stando a dati governativi resi noti il 15 giugno scorsi, la Cina deterrebbe almeno 1,115 trilioni di dollari di debito Usa, qualcosa come il 26% di tutte le obbligazioni emesse da Washington. Fino a oggi, gli Stati Uniti vendevano il loro debito attraverso aste settimanali gestite dal Treasury Bureau of the Public Debt, in lotti che andavano dai 13 ai 35 miliardi di dollari per volta. Gli investitori potevano comprare il debito direttamente dal Tesoro alle aste oppure attraverso 20 primary dealers, ovvero operatori privati di Wall Street autorizzati ad acquistare per conto dei clienti. Il Tesoro limita l’acquisto di ogni singolo acquirente di un particolare lotto al 35% di ogni asta, poiché chiunque superi quella percentuale avrebbe una quota di controllo del lotto. Ma dall’inizio del 2009, la Cina, che usa diverse aziende per comprare Treasuries, cominciò a stringere patti attraverso i quali riusciva a nascondere miliardi di dollari di acquisti a ogni asta utilizzando il metodo del cosiddetto “guaranteed bidding”.

Di cosa si tratta? Di accordi tra gentiluomini con primary dealers per l’acquisto di un certo quantitativo di Treasuries in offerta a un’asta senza essere registrati come offerenti a quell’asta. Insomma, una volta definito il quantitativo di Treasuries da comprare, il dealer lo acquistava all’asta tecnicamente a suo nome e per suo conto, quasi volesse aggiungere l’asset acquistato al suo stato patrimoniale. Nulla vieta poi al dealer di rivendere i Traesuries sul mercato secondario, ma l’effetto destabilizzante sull’asta è assicurato, visto che si oscura il compratore finale. I dealers, insomma, passavano immediatamente i bonds all’anonimo guaranteed bidder – in questo caso, la Cina – al prezzo dell’asta, non appena questi venivano emessi.

Così facendo, oggi al Tesoro non hanno la certezza sulla reale dimensione del debito americano detenuto dalla Cina, visto che le vecchie regole potrebbero aver consentito a Pechino di comprare quote di controllo in molte delle obbligazioni emesse dal Tesoro. Di più, il sospetto è che la Cina non sia l’unico guaranteed bidder ad avere fatto il furbo: anche la Russia avrebbe violato le regole, ma il peso appare decisamente differente, visto che Mosca detiene il 2,8% del debito Usa contro un quarto del totale della Cina. Il guaranteed bidding, di per sé, non è illegale, mentre può esserlo la rottura del limite del 35%: ecco perché, stando alle nuove regole, chi eccede la quota vedrà il suo acquisto limitato al 35% e sarà bandito dalle future aste.

Insomma, gli Usa sono a rischio di default tecnico e contemporaneamente non sanno quanto del loro debito è detenuto dalla Cina, soggetto sempre più egemone negli equilibri geofinanziari globali e acquirente netto di euro in previsione di una colonizzazione di massa dell’Europa post-euro, quella che nascerà sulle rovine del default greco, oggi soltanto rimandato per l’ennesima volta. Ci aspettano tempi di grande instabilità e grandi cambiamenti, difficile preventivare quali equilibri sorgeranno da questo brodo primordiale di economia e finanza globale: una sola cosa è certa, Barack Obama ha terminato il suo mandato.

L’avviso di Standard&Poor’s è una chiara intimazione di sfratto dalla Casa Bianca: Wall Street ha decretato il suo giudizio. Vedremo come e se Ben Bernanke tenterà l’ultima, disperata manovra. Quella che potrebbe dar vita al Big Bang.

P.S. Perché sono così certo di un evento epocale alle porte? Con la fine del QE2 e della monetizzazione del debito, qualche serio dubbio sulla sostenibilità del debito Usa emerge. Basti vedere il risultato dell’ultimo Pomo ieri, che al netto di un monetizzazione di 4,909 miliardi di dollari di bonds, ha visto la stragrande maggioranza degli stessi – 4,405 miliardi dollari – sotto forma di Cusip QT7, ovvero le obbligazioni a sette anni emesse soltanto il giorno prima! Alla faccia della solidità del debito Usa, i primary dealers hanno tenuto quel debito nello stato patrimoniale meno di 22 ore e hanno sfruttato l’ultima stampata da 5 miliardi di dollari della Fed per operare l’ultimo roll del debito e fare cassa.

Da oggi, però, le cose cambiano e verrà a mancare un sostegno aggiuntivo da 75 miliardi di dollari al mese ai book di acquisto dei T-Bills statunitensi, limitandosi l’aiutino statale ai 30 miliardi circa del QE-Lite. Al netto dell’innalzamento del tetto di debito che ci sarà, come appare sostenibile una dinamica del debito simile (si parla di circa 270 miliardi di dollari al mese in via ordinaria)? Non vi pare un buon motivo per una guerra da qualche parte che rimpolpi le casse della Fed e metta il turbo ai T-Bonds?