L’attacco di cui parlavamo nell’articolo di ieri è partito in grande stile e il fatto che ieri Silvio Berlusconi abbia parlato di «fango e poteri forti» contro di lui, non deve apparire una difesa d’ufficio o, peggio, uno scaricabarile rispetto a quanto non fatto dalla maggioranza: in parte, al netto degli errori commessi (tanti), è la verità.
Siamo alla vigilia di un nuovo 1992, che questo piaccia o meno. Ieri il differenziale di rendimento tra Btp decennali e Bund tedeschi è volato al nuovo massimo storico a 224 punti base, spingendo il rendimento del Btp a 10 anni al 5,185. Già mercoledì il tasso aveva superato la soglia psicologica del 5% per la prima volta dal 2008, subendo la pressione del rischio contagio della crisi del debito sovrano, amplificata dal downgrade del Portogallo deciso da Moody’s tre giorni fa.
In tensione anche i titoli di Stato della Spagna per l’asta da 2-3 miliardi di euro in programma ieri: il tasso del decennale è salito di 6 punti base al 5,66% e lo spread con il bund si è ampliato a 271,6 punti. E tanto per non farci mancare nulla, nuovi massimi anche per il rischio debito di Portogallo e Irlanda: i credit default swaps su Lisbona sono balzati per la prima volta oltre quota 1000 punti base, praticamente l’insolvenza e la bancarotta, mentre quelli su Dublino sono aumentati di 5 punti al picco di 848 punti. Stabili, invece, quelli su Atene a 2.150 punti base, praticamente fantascienza.
Non contenta di aver tagliato il rating sovrano del Portogallo, poi, Moody’s è intervenuta su quattro banche locali che si sono viste declassare il proprio debito garantito dal governo: si tratta della Caixa Geral de Depositos, del Banco Espirito Santo, del Banco Comercial Portugues e del Banco Internacional do Funchal. Il debito garantito dal governo per la Caixa Geral des Depositos e il Banco Espirito Santo è stato declassato di tre livelli a Ba1 da Baa1 e rimane in attesa di un ulteriore taglio, mentre il debito di Banco Comercial Portugeus e Banif è declassato di quattro notches a Ba2 da Baa1, con outlook negativo. Come dire, in quelle banche sono depositati solo debiti. E dopo l’attacco di Commissione europea e José Manuel Barroso in persona, ieri anche l’Ocse si è unita al coro generale, sollevando la questione dell’ambivalenza delle decisioni prese dalle agenzie di rating.
In un’intervista al quotidiano La Stampa, il capo-economista dell’Ocse, Pier Carlo Padoan, sottolineava la natura pro-ciclica delle decisioni, che molto spesso non fanno altro che aggravare la crisi in corso: «Non è vero che trasmettono informazioni: esprimono valutazioni imprimendo un’accelerazione a tendenze che sono già in atto. È come dare una spinta a chi è già sull’orlo del burrone. Aggravano la crisi». Padoan, tuttavia, appare fiducioso sulla capacità dell’euro di reggere all’onda d’urto e dell’Unione europea di rafforzare le sue istituzioni e il coordinamento, anche grazie agli eurobond.
Di parere decisamente opposto Dennis Gartman, guru dell’investimento Usa, che intervistato da Cnbc ha espresso i seguenti concetti, mettendo Spagna e Italia nel medesimo calderone di Grecia, Irlanda e Portogallo (e i balzi dei cds, in effetti, tutti i torti non glieli danno): «Probabilmente i problemi saranno contenuti nel breve termine, ma nel lungo periodo la situazione è definitivamente impostata verso un epilogo non positivo. Mi aspetto che tutti i Piigs andranno in bancarotta e non parlo di un arco temporale di 10 o 20 anni da oggi, ma che qualcosa accada nel prossimo anno e mezzo. Il loro destino è segnato».
Giudizi netti, forse ammantati di un pessimismo autoavverante, ma condivisi anche dal trader Jon Najarian, sempre intervistato da Cnbc, il quale allunga l’arco temporale prima del disastro a «3-5 anni, ma per il resto condivido appieno l’analisi di Gartman. Il debito di quegli Stati è insostenibile e la cosa peggiore da fare in questo contesto è alzare le tasse, cosa che quei governi stanno facendo». Conferma Gartman: «Come si può pensare che un aumento delle tasse possa aiutare paesi con un tasso di disoccupazione del 20%?». Talmente è convinto delle sue idee che Gartman prefigura anche un pattern sull’euro/dollaro: «Il fatto che l’euro abbia rotto sotto 1,43 è tecnicamente importante, scommetto che viaggeremo in area 1,40 in un futuro non troppo distante. I guai, quelli veri, sono in arrivo». E per Jon Najarian, «i grandi players stanno già piazzando scommesse su questi livelli».
Insomma, siamo sotto attacco e il motivo è chiaro: negli Usa c’è la percezione che la situazione dell’euro sia più catastrofica di quanto noi non pensiamo, quindi si opera su grandi volumi in tal senso. E l’Europa, purtroppo, non sa difendersi, avendo istituzioni che si muovono in ordine sparso, non avendo una sua società di rating che faccia da contraltare alle “tre sorelle” Usa, istituzioni che in questi giorni stanno gestendo la politica economica del Paese nella speranza che affondando l’euro e l’Europa, gli investitori si gettino sul mercato dei Treasuries dopo la fine del programma di acquisto della Fed.
Insomma, nelle dark pools della banche d’affari si scommette contro di noi e l’Italia è la prima sulla linea del fuoco: tutte le nostre principali aziende sono nei portafogli short dei fondi speculativi e dei grandi investitori e instabilità politica e debiti monstre creano dei supporti di fondamentale per queste teorie e pratiche di investimento, tutte basate su scommesse allo scoperto che all’interno di entità opache come le dark pools sono la norma.
C’è un però, dietro tutto questo: ci rendiamo conto di chi ci sta attaccando? Un Paese sull’orlo del default tecnico sul tetto di debito, un Paese che solo i vergognosi conflitti d’interesse in seno alla società di rating mantengono ancora a livello AAA, visto che un downgrade – più che giustificato dalle cifre – ucciderebbe ogni speranze di far ritrovare ai T-Bills il loro status di bene rifugio più sicuro dopo l’oro. Specula su di noi e sulle nostre debolezze un Paese dove il Tesoro, invece di mettere un singolo penny nei fondi pensione federali come G e CSRD, ha deciso di defraudare dei loro accantonamenti i pensionati, utilizzando in maniera sistematica le cosiddette intragovernamental holdings come bancomat per pagare il debito sul mercato.
Così, mentre il debito Usa detenuto dai cittadini è cresciuto di altri 21 miliardi di dollari in base alle aste della scorsa settimana (l’ultima di QE2 e monetizzazione del debito), per restare sotto la soglia di debito di 14.294 miliardi di euro, il buon Tim Geithner ha disinvestito altri 20 miliardi di dollari dai fondi pensione, un dato che porta il livello di disinvestimento per i vari fondi finiti sotto questo ombrello emergenziale a oltre 120 miliardi di dollari. Ovviamente, se non si creerà un evento di default entro il 2 agosto prossimo, deadline per innalzare il tetto di indebitamento, questi fondi disinvestiti saranno i primi a essere reintegrati nelle casse. Ma se non si arriverà a un accordo sull’innalzamento, la situazione si farà molto pesante per i pensionati Usa, visto che il cosiddetto marketable debt, ovvero cedole e interessi da pagare sulle obbligazioni governative, hanno la priorità sul debito intragovernativo, ovvero i fondi pensione federali. Capito chi ci sta facendo la guerra dal buio delle dark pools, dicendosi convinto del disastro che ci attende dietro l’angolo?
Il bue che dà del cornuto all’asino, peccato che quel bue abbia la leva finanziaria, le agenzie di rating e qualche kapò fiancheggiatore in seno all’Europa che lavora per suo conto: molti analisti vedono un trend in crescita per lo spread Btp/Bund nel breve termine nell’ordine di 300-325 punti base, con prezzi delle nostre obbligazioni in discesa. Siamo sotto attacco, l’ultima cosa da fare è dividersi. Questa volta non si sta scherzando.
P.S. A conferma dei tempi duri che abbiamo di fronte e dell’allucinante politica Usa, degna di una valutazione portoghese se esistessero veramente agenzie di rating credibili e indipendenti, guardiamo al prezzo dell’oro in prospettiva: al termine del bull market garantito dal secondo ciclo di quantitative easing conclusosi il 30 giugno scorso, potrebbe arrivare a 2300 dollari l’oncia. Ne sono convinti all’Erste Group, dopo la pubblicazione dell’ottimo report “In gold we trust” che analizza i trend auriferi.
Quali i fattori di forza? Le valute sempre più deprezzate e destinate a perdere ancora valore a fronte delle crisi dei debiti sovrani, la ratio stock-to-flow (la quantità di oro prodotto in totale diviso la produzione annuale) che in base ai dati del 2010 parla di una ratio di 65 anni (ovvero scarsità solo percepita), il fatto che le altre commodities si consumino mentre l’oro si stocca e si conserva, ma soprattutto le proiezioni riguardo il cosiddetto Shadow Gold Price (ottenuto dividendo la base monetaria Usa per le detenzioni aurifere Usa): se si fosse mantenuta la piena convertibilità dollaro/oro, continuando a stampare biglietti verdi come si è fatto finora, oggi l’oro varrebbe quasi 9mila dollari l’oncia. Nel 2008, il prezzo dello Shadow Gold era circa 3mila dollari l’oncia, poi Ben Bernanke ha fatto il resto facendone triplicare il prezzo in due anni e mezzo (con queste credenziali, chi potrà strappargli il premio Nobel per l’economia una volta abbandonata la guida della Fed?). Vi rendete conto di chi ci fa la morale e ci specula contro?
P.S. A sorpresa, ieri Jean-Claude Trichet ha annunciato la sospensione dei requisiti di rating per il collaterale emesso dal governo portoghese e utilizzato per prendere a prestito denaro dalla Banca centrale, decisione che in base al comunicato stampa della Bce «resterà in vigore fino a comunicazione contraria». In parole povere, pur di evitare un default, Francoforte è pronta a inglobare nei propri bilanci ulteriori quintalate di obbligazioni definite “spazzatura” dalle agenzie di rating e quindi non utilizzabili come fonte di finanziamento sul libero mercato.
L’ultimo atto di Trichet potrebbe quindi essere una silenziosa e mascherata versione europea del quantitative easing messo in campo in due tranche dalla Fed americana, ovvero monetizzare il debito accettando come collaterale dei prestiti qualsiasi tipo di bond, anche insolvente, senza fare affidamento al mark-to-market. Per quanto la Bce possa proseguire in questa politica senza rischiare essa stessa l’insolvenza, a fronte di sempre più possibili tagli draconiani dei rendimenti delle obbligazioni periferiche, non è dato a sapere, ma l’azzardo appare alto, sintomo di come il rischio di bancarotta stia crescendo a dismisura giorno dopo giorno. Esattamente come gli spread dei Btp decennali sul Bund.