Prima di tutto, un po’ di prospettiva. Ovvero, quanto durerà questo mercato “dell’orso”? Un vecchio adagio di Wall Street recita “sell in May and go away”, ovvero vendi le azioni a maggio e scappa via. Non lo avete fatto e vi ritrovate tra i marosi della crisi globale? Niente paura, il peggio deve ancora venire, quindi avete ancora una via d’uscita.

La pensa così almeno Walter Zimmerman, capo stratega azionario alla United-ICAP, il quale lo scorso 19 aprile avvisò tutti attraverso la Cnbc che dopo i massimi raggiunti il 2 maggio scorso, la tempesta quasi perfetta era alle porte e sarebbe durata almeno fino a novembre. Zimmerman citava questo mix letale a sostegno della sua tesi: accelerazione delle paure per il contagio del debito europeo, cattive notizie sul fronte occupazionale e immobiliare e una terribile battaglia politica sull’innalzamento del debito Usa, tutte unite per spedire i livelli medi in territorio “da orso”.

Tacciato dai geni alla Tremonti di essere una Cassandra, ora Zimmerman si gode la sua rivincita e azzarda previsioni ulteriori. «Gli indicatori economici sono inaspettatamente ribassisti per tutti i trimestri di quest’anno, quindi smettiamola di parlare di un piccolo soft patch. Quando e se il mercato abbatterà i minimi da inizio mese, allora comincerà davvero ad affondare».

L’indice Standard&Poor’s 500 ha avuto il suo picco il 2 maggio, quando è cresciuto dell’8% sull’anno: da allora all’8 agosto ha perso il 18%, due punti in meno rispetto a quel 20% necessario per ufficializzare un “mercato dell’orso”. Come se questo non bastasse, nonostante il rimbalzo compiuto fino a oggi, ora il mercato si trova a fronteggiare i due peggiori mesi dell’anno – settembre e ottobre -, i quali collimano con una serie di fattori tecnici che rendono le opportunità di guadagno molto difficili da trovare.

«Gli investitori devono prepararsi a un viaggio pieno di sobbalzi visto che la volatilità, basata sulle chiusure quotidiane o gli spreads intraday tra massimi e minimi, è qui per restare», fa notare Sam Stovall, capo analista equity di Standard&Poor’s. Insomma, il mini-rally di sollievo di questo periodo avrà il fiato corto: «Una netta correzione come quella che abbiamo vissuto porta sempre con sé un breve periodo di riassestamento positivo, ma poi si torna sempre a testare i minimi. Occorre essere pazienti, il rallentamento degli Usa e globale sta guadagnando forze e questo avrà un impatto negativo sui profitti». Eppure, stando a recenti sondaggi di Cnbc chi pensa positivo verso i mercati è nettamente in vantaggio sui pessimisti, 46,2% contro 23,7%. Brutto segno, perché storicamente sondaggi simili vengono ribaltati dalla realtà.

Insomma, che fare? Stando alle statistiche, i mercati sono crollati per un totale del 5% o più in un singola settimana 39 altre volte dal 1950 a oggi e l’S&P500 l’anno successivo cresceva mediamente del 18,5% ed era positivo tre volte su quattro come media. Inoltre, un po’ di speranza arriva dal dato sulla fiducia dei consumatori americani calcolato dall’Università del Michigan: ogni volta che scende sotto quota 60 – e la scorsa settimana si è inaspettatamente attestato a 54,9 – l’anno dopo l’indice S&P 500 cresce mediamente del 20,7%. Insomma, dai, un po’ di pazienza: se nel frattempo non crolla tutto, il 2012 potrebbe portarci qualche occasione sul mercato azionario.

Ora, però, torniamo al tema della settimana, ovvero Cip e Ciop e le loro proposte autoreferenziali per salvare l’Europa. Una di queste è porre a capo del cosiddetto Euro Council il presidente dell’Ue, ovvero quell’Herman Van Rompuy il cui passato biografico ci consegna un poeta e non un uomo di economia o finanza: già, non scherzo, Van Rompuy è noto ai più per la sua attività letteraria di poeta (nell’aprile dello scorso anno pubblicò una raccolta di poesie in stile giapponese, il cosiddetto haiku, dal titolo “Haiku” e comprendente 48 componimenti). Qualità, capirete, fondamentale per tranquillizzare i mercati.

Chissà come ha preso la notizia il povero Jean-Claude Juncker, capo di quell’Eurogruppo che già oggi assolve i compiti che Cip e Ciop vorrebbero affidare a un organismo nuovo di zecca destinato a riunirsi due volte al mese (i ribassisti già si sfregano le mani, avendo la certezza di due giorni di crolli al mese garantiti). In compenso, i due simpatici scoiattolini del nulla politico si sono ben guardati dallo scendere nello specifico rispetto al ruolo della Bce sul mercato obbligazionario secondario: la scorsa settimana Francoforte ha comprato 22 miliardi di euro di bonds italiani e spagnoli e martedì è intervenuta ancora. Avanti di questo passo, il prossimo traguardo è 150 miliardi di esborso: toccato quel livello, i mercati innescheranno una nuova crisi.

Il nostro Paese deve raccogliere o fare roll-over per 68 miliardi di euro da qui alla fine di settembre: state certi che una gran parte di investitori obbligazionari coglieranno al volo l’occasione offerta dall’interventismo della Bce per scaricare le loro posizioni, regalando il rischio ai contribuenti europei. Per mantenere il rendimento del nostro Btp decennale al 5% da qui alla fine di settembre la Bce dovrà comprare nostre obbligazioni per almeno 100 miliardi. Forse i fondi sovrani cinesi o del Golfo seguiranno il suo esempio, o forse no.

Risposte di Cip e Ciop a questa situazione? Nulle. In compenso, per l’ennesima volta ha aperto la bocca e gli ha dato fiato George Soros, speculatore e devastatore di economie ora tramutatosi in editorialista-filantropo, secondo cui Grecia e Portogallo devono prepararsi a un’uscita ordinata dall’Eurozona. Sulla Grecia ho poca voglia e pochi argomenti di difesa, ma per il Portogallo la questione è diversa. Lisbona, infatti, negli ultimi otto anni si è comportata più che bene dal punto di vista dei conti pubblici, dopo aver affrontato la sua bolla del credito a fine anni Novanta grazie alla geniale intuizione di far crollare i tassi nell’eurozona dal 16% al 3%, distruggendo l’economia lusitana a tutto vantaggio dell’export tedesco e del suo stramaledetto surplus commerciale.

Certo, il Portogallo ha fatto molti errori – come tutti – ma non ha mai violato il Trattato di Maastricht, né il Patto di Stabilità, né tantomeno ha truccato i conti (come invece ha fatto Atene con la collaborazione di Goldman Sachs). Nemmeno la Spagna ha mai violato Maastricht, ha gestito un surplus fiscale del 2% del Pil durante il boom, aveva un debito pubblico modesto e la sua Banca centrale ha inventato la cosiddetta “previsione dinamica” per contrastare la politica monetaria dissennata della Bce, con una crescita a doppia cifra della massa monetaria M3. L’Italia stessa ha un surplus di budget primario e nonostante il debito alle stelle, la stessa Commissione europea stima che con le attuali politiche, il nostro Paese avrà la ratio debito pubblico/Pil più bassa dell’eurozona attorno al 2050.

Certo, servono per tutti questi paesi riforme importanti del mercato del lavoro e recupero di competitività, ma né la Bce, né la Commissione Europea fino a oggi si erano stracciate le vesti per ottenere misure simili: ora, invece, ecco prima il commissariamento del governo e poi la sortita di Cip e Ciop. Il problema che sta alla radice della crisi europea è profondo e strutturale, ovvero aver messo assieme economie così diverse prima che ci fosse una convergenza in fatto di produttività, pattern di crescita, potere d’acquisto, proiezioni inflazionistiche, sistema legali o anche soltanto politiche sui tassi che non si basassero sulla regola del “one size fits all”, ovvero la misura di scarpa che va bene alla Germania va bene a tutti.

Già, perché i saputelli tedeschi scordano che il disastro è nato dal fatto che la Bce ha operato come una nuova Bundesbank, rompendo i vincoli di obiettivo di inflazione e massa monetaria M3 per aiutare Berlino quando questa era nei guai per ragioni cicliche. Piano quindi con diktat e prediche, sia Cip che Ciop: non ci sono innocenti in questa storia, tantomeno la Germania che ha pensato di potersi blindare in uno stato strutturale e permanente di surplus commerciale e, contemporaneamente, ordinare agli altri di smetterla di portare avanti politiche di deficit.

Io una mezza idea su come rimettere in riga l’Ue e soprattutto i primi della classe – quelli che Maastricht, a differenza di Madrid, l’hanno violata eccome – ce l’avrei, magari durante la settimana del Meeting di Rimini ve la racconto… In compenso la performance di ieri della Borsa e soprattutto dei titoli bancari conferma chiaramente il mio articolo di martedì: il bando allo short selling non serve a nulla.

P.S. Quiz per il Meeting. Qual è quella banca europea che mercoledì mattina ha preso in prestito dalla Bce 500 milioni di dollari a sette giorni al tasso fisso dell’1,1%? Già, la finestra di prestito scontato denominato in dollari – di fatto un fondo per liquidità di emergenza – della Banca centrale europea, infatti, due giorni fa ha visto un unico richiedente per l’intera somma, erogata ieri da Francoforte e da ripagarsi il 25 agosto prossimo.

Chi ha tanto bisogno di liquidità tra gli istituti europei? In dollari, oltretutto. A far spaventare è il fatto che dallo scorso marzo nessuno aveva più usufruito di questa particolare facility della Bce e che l’ultima volta che si è registrata una richiesta di prestito di una certa entità risale al maggio 2010, quando l’Europa andava a fuoco e l’Eurotower era pronta a tutto per bloccare il contagio. I rumors su quale sia l’istituto coinvolto si sprecano, facendo riferimento a una recente perdita su derivati da 200 milioni di dollari subita da una banca del Vecchio Continente e da ieri anche le autorità statunitensi stanno monitorando con attenzione la solvibilità in dollari delle filiali Usa dei principali istituti europei.

Aspettate qualche giorno e saranno i mercati a dircelo, prima della chiusura del Meeting. Chi azzecca prima, però, merita un premio. Ora ne parlo con il direttore e settimana prossima vi faccio sapere. Buon Meeting.