«Lo spread sui titoli italiani rimane ancora elevato, attorno ai 290 punti base. Questo è un segnale che i rischi per il nostro Paese rimangono ancora alti». È quanto rilevava Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, durante l’audizione sulla manovra in Commissione Bilancio al Senato ieri mattina. Meno male che Confindustria c’è! E, per una volta, non sono ironico. Il nostro Paese è sotto attacco strisciante della Germania, spaventata dall’ipotesi che una stabilizzazione della situazione porti con sé l’addio ai suoi sogni egemonici e, quindi, agisce di conseguenza.
Nel silenzio generale della stampa, infatti, si stanno compiendo atti e situazione da pelle d’oca. Il primo: la Grecia potrebbe andare in default entro una settimana se non questo stesso weekend. Ieri il rendimento dell’obbligazione decennale ellenica ha infatti toccato il massimo di tutti i tempi al 18,35%, mentre i bond a 2 anni sfiorano il 50% di yield e la Borsa di Atene continua a far registrare nuovi minimi, ieri attorno a quota 375 punti, dai 2818 del 2008.
Insomma, il secondo salvataggio non è servito a nulla per il semplice fatto che la Germania con una mano lo ha ratificato a Bruxelles e con l’altra l’ha reso impraticabile a Berlino, sostenuta in questo da Finlandia e Austria con la loro conditio sine qua non di collaterale a garanzia dei prestiti verso Atene. La quale, se salta, nelle condizioni attuali create dai terroristi finanziari della Bundesbank, manderà a gambe all’aria tutto.
Ma a preoccupare maggiormente è il secondo avvenimento, ovvero il meeting in corso a Lindau, sul lago di Costanza in Germania, dove qualche decina di premi Nobel per l’economia stanno cercando di fare il punto della situazione, partendo proprio dalle loro previsioni sbagliate. Peccato che nessun giornale italiano abbia scomodato un inviato, sarebbe stato istruttivo per i lettori di casa nostra. In compenso, ci sono andati in massa i giornalisti britannici. I quali ci fanno sapere che il presidente tedesco, Christian Wulff, si è così espresso riguardo la scelta della Bce di comprare bond italiani e spagnoli sul mercato secondario: «Ritengo gli enormi acquisti di bond di Stati individuali discutibili sia dal punto di vista legale che politico. L’articolo 123 del Trattato dell’Unione europea proibisce alla Bce l’acquisto diretto di strumenti di debito, proprio per salvaguardare l’indipendenza dell’istituto. Questa proibizione ha però senso se chi è responsabile di ciò non aggira le norme, dando vita a sostanziali acquisti sul mercato secondario. Con acquisti per 110 miliardi di euro in sette mesi, la Bce è andata ben oltre il suo mandato».
Ovviamente, non una parola su quale strategia alternativa la Bce avrebbe dovuto porre in essere per placare l’attacco a Btp e Bonos che aveva mandato fuori controllo gli spread ad inizio agosto, fatto che poneva a serio rischio la stabilità dell’eurozona e del suo sistema finanziario. Ma si sa, a un politico tedesco non si può chiedere di avere la mente aperta: un’opinione da sostenere è già troppa, due un inferno e tre una folla.
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E questo attacco frontale nei nostri confronti, si parla a suocera (la Bce) perché nuora (Roma) intenda, va a unirsi ad altri due dei giorni scorsi: ovvero, l’intemerata della Bundesbank sempre contro la Bce e l’accordo salva-Grecia dello scorso luglio e l’affondo di Ursula von der Leyen, ex ministro della Famiglia e vice-segretario della Cdu, il partito della Merkel, la quale ha proposto che d’ora in poi ogni aiuto finanziario verso Stati dell’area euro possa essere concesso solo a fronte di un collaterale in oro o attraverso la garanzia di partecipazioni industriali (ovvero, la Germania punta a tramutare gli acquisti di nostri bonds da parte della Bce da aiuto illegale ad aiuto legale, chiedendo quindi un collaterale che le permetta di mettere le mani sulle nostre riserve d’oro – enormi – o su Eni o Finmeccanica come garanzia per quanto sborsato finora dalla Bce).
Guarda caso, tutte queste sparate arrivano a pochi giorni dal 7 settembre, giorno in cui la Corte costituzionale tedesca si pronuncerà sulla liceità del salvataggio greco: il tono di Wulff e della Bundesbank ci fa capire che in Germania si dà già per assodato la bocciatura dell’accordo dello scorso luglio a Bruxelles. Insomma, Berlino vuole far sapere all’Europa e al mondo che la sua dose di solidarietà e pazienza è finita: bene, prendiamo atto, ma con educata fermezza rispondiamo, “chi se ne frega”. È colpa dell’Italia se il debito pubblico tedesco sta raggiungendo l’83% del Pil? È colpa dell’Italia se Deutsche Bank, Commerzbank e tutte le banche e banchette dei Lander si sono comportate per anni come fondi speculativi, ingurgitando cartaccia che ora vale zero ma che nei loro bilanci è ancora iscritta a valore facciale dell’epoca? Insomma, è colpa dell’Italia se la Germania e le sue banche sono campioni di falso in bilancio? È colpa dell’Italia se tutti gli indici di fiducia e crescita, dallo Zew all’Ifo, certificano che la Germania non cresce più e che la “locomotiva d’Europa” si è tramutata in una carretta? È colpa dell’Italia se si è fermata la bund-mania, cioè la corsa agli acquisti dei titoli di Stato tedeschi perché ritenuti i più sicuri dell’eurozona?
Ieri Berlino ha raccolto 4,85 miliardi di euro con l’emissione del nuovo bund decennale, cedola 2,25%, rendimento in salita al 2,15%, superiore ai livelli minimi espressi mercoledì dal mercato secondario. Molto tiepida anche la domanda, pari a 1,4 volte l’offerta. È colpa dell’Italia se «da molti anni la Germania non è una potenza affidabile, né a livello interno, né all’estero», come certificato l’altro giorno dall’ex Cancelliere, Helmut Kohl? È colpa degli acquisti della Bce tutto questo? No, forse è colpa del fatto che dopo dieci anni di commissariamento della Bundesbank, l’Eurotower ha smesso di modellare la sua politica dei tassi a tutto beneficio dell’export tedesco e del suo surplus commerciale, vera ragione – più dell’indebitamento – dei default di Irlanda, Grecia e Portogallo.
Alla luce di tutto questo, quindi, invito tutti voi a valutare non una ma mille volte l’ipotesi di EuroUnionBond avanzata da Romano Prodi e dal professor Quadrio Curzio, visto che pone come base per il finanziamento del futuro ente emettitore, proprio l’oro: il quale, in tempi simili, deve – DEVE – restare in mano alla Banca centrale e non finire in fondi comuni non si sa da chi e come gestiti. Abbiamo già pagato pegno alla Germania in tal senso nel 1972 e ora, con ciò che ci attende di fronte, non è proprio il caso nemmeno di parlarne.
Già, perché il rischio di un market crash ben peggiore di quello di Lehman Brothers potrebbe essere distante solo poche settimane. Lo segnalano una serie di indicatori, tra cui il picco di valutazione dei cds di banche come Royal Bank of Scotland, Bnp Paribas, Deutsche Bank e Intesa Sanpaolo. Un solo dato: assicurarsi dal rischio di default di RBS, oggi costa più caro di quando nell’ottobre del 2008 il governo inglese fu costretto a nazionalizzarla de facto. Il problema sta tutto nella mancanza di liquidità, un pattern esattamente simile a quello del 2008 quando il credito interbancario si bloccò per sfiducia reciproca tra gli istituti: stando a un senior banker intervistato ieri dal Telegraph, «stiamo avvicinandoci a un market shock in settembre od ottobre, un qualcosa senza paragoni rispetto a quanto visto finora».
E non è detto che sia una banca europea a innescarlo, il caos potrebbe tranquillamente propagarsi un’altra volta dagli Usa, visti i tremori sinistri nei bilanci di Bank of America. E, mi raccomando, sfuggite i facili e mal riposti ottimismi di chi vede nel discorso di Ben Bernanke di questa sera a Jackson Hole e nel crollo del prezzo dell’oro segnali incoraggianti. Il tonfo dell’oro, sceso di oltre il 5% a quota 1730 dollari l’oncia, il peggiore aggiustamento al ribasso dal dicembre 2008, è infatti dovuto ad altre ragioni e non a un rasserenarsi della situazione. Eccole: dopo l’aumento al 26% dei margini per aprire posizioni futures operato dalla Shanghai Gold Exchange, anche la CME ha portato i margini richiesti al 27% dal precedente rialzo al 22% di sole due settimane fa; le detenzioni di oro della SPDR Gold Trust sono scese di oltre 25 tonnellate, il dato peggiore dal 25 gennaio; molti hedge funds stanno scaricando posizioni per stoccare contante in attesa del discorso di Jackson Hole.
Oro in ribasso, quindi turbolenze finite? No, anche perché, dati alla mano, il livello raggiunto ieri non è un minimo storico, ma quello di sole due settimane fa, ancora record se permettete. Se stasera Ben Bernanke tradirà le attese, non annunciando un terzo round di QE3, prepariamoci al Nasdaq giù di 400 punti e all’oro che punta dritto a 2.000 dollari l’oncia. E a un caos epocale nel mercato bancario. Anche per questo, forse, i tedeschi sono così nervosetti.
Avanti Italia, nervi a posto e testa alta: con una burocrazia sovietica, servizi da mani nei capelli, un debito pubblico mostruoso, provincialismo imprenditoriale (caro John Elkann, con tutto il rispetto, le chiedo io se Fiat ha ancora intenzione di produrre automobili, visto che fino ad oggi – al netto di un governo che vi ha concesso tutto – avete prodotto solo spin-off, equity swaps, guerriglie coi sindacati e un mucchio di chiacchiere, ma niente investimenti), una classe politica da scandalo, sindacati da Prima Internazionale e infrastrutture da terzo mondo, siamo l’unica economia dell’area Ocse che ha conosciuto crescita nell’ultima rilevazione.
Possiamo e dobbiamo farcela ma ora, subito, riforme, riforme e riforme. Anche perché a metà settembre arriverà il downgrade del rating sul nostro debito da parte di Moody’s: niente paura, il Giappone è stato declassato due giorni fa e ieri l’indice Nikkei ha chiuso in positivo dell’1,54%, grazie al discredito ormai globale di cui godono le agenzie di rating (a quando la loro messa al bando – anzi, fuorilegge – da parte dell’Unione europea?) e al piano da 100 miliardi d dollari del governo nipponico per aiutare le imprese. Insomma, si può fare.
P.S. Meglio essere onesti: ieri l’Europa ha tremato. L’indice Dax della Borsa di Francoforte è crollato in un flash crash a due ore dalla chiusura a causa dei rumors su un possibile bando delle vendite allo scoperto (prorogato invece fino al 30 settembre in Italia, Spagna, Grecia, Belgio e Francia) e addirittura sul downgrade del rating sul debito. La Banca centrale greca, poi, è stata costretta ad attivare per la prima volta l’ELA (Emergency Liquidity Assistance), il programma di salvataggio d’emergenza per le banche, solitamente utilizzato come ultima istanza quando anche la Bce rifiuta il collaterale, in questo caso dalle banche greche per finanziarsi.
Insomma, la situazione è talmente grave da aver visto la Bce rifiutare collaterale greco e dare via libera all’attivazione dell’ELA, la quale per statuto «è garantita solo in circostanze eccezionali e caso per caso a istituzioni o mercati temporaneamente illiquidi». Insomma, tradotto significa che la Grecia è ormai all’orlo del fallimento.
L’Europa ieri ha tremato, oggi potrebbe cadere visto che a Londra fanno notare come il tonfo del Dax a Francoforte abbia coinciso perfettamente con la reazione abbastanza tiepida del mercato al salvataggio di Bank of America da parte di Warren Buffett. Come dire, se 5 miliardi di dollari di investimento non fanno tornare la fiducia verso quell’istituto significa due cose: o che la situazione è ancora peggiore di così a livello di esposizione (ed è vero) oppure già si prezza un possibile default bancario europeo, al netto dell’assenza di un Buffett continentale che intervenga (ed è vero anche questo). Se poi Ben Bernanke stasera tradirà le attese per un nuovo piano di stimolo dell’economia Usa, il sell-off potrebbe diventare globale.